VITA
DI
PAOLO MERCURI
INCISORE
PER
IGNAZIO CIAMPI
PROF. ORD. DI
STORIA MEDIOEVALE E
MODERNA NELLA UNIVERSITA
ROMANA
SECONDA EDIZIONI
CON DOCUMENTI
INEDITI
ROMA
VICENZO SALVIUCCI
EDITORE
1879
L’EDITORE A
CHI LEGGE
La vita
di Paolo Mercuri, che ora nuovamente si publica, venne già accolta con
molto plauso dalla stampa italiana allorchè, circa otto anni fa, vide
per la prima volta la luce in una delle più riputate Riviste d’Italia:
la NUOVA ANTALOGIA, vol. XVIII, fascicolo del novembre 1871.
Tralasciando molti altri benevoli giudizi, ci basta qui riportare le belle
parole che ne fece l’ARCHIVIO STORICO ITALIANO, Periodico di
quell’autorità che tutti sanno, il quale, nel tomo XIV, III serie, 6a
dispensa del 1871, cosí si esprime: “Con forma eletta, con ordine, con
temperanza, senza rettoricumi e senza declamazioni e con molta intelligenza
dell’arte ci dà il Ciampi informazione precisa della vita e delle opere
di questo incisore, che, vivendo diciotto anni a Parigi, combattendo con
constanza e vincendo la fortuna , seppe conservare presso gli stranieri la
gloria del nome italiano nelle arti “.
Una tale accoglienza bastava
a giustificare l`oportunità di una seconda edizione di questo libro, che
da per sè stesso tanto si raccomanda non solamente per l’insigne nome da
cui s’intitola, ma anche per l’amoroso e severo studio che l’autore mise nello
scriverlo con tanta squisitezza di pensieri e di stile.
Oltre poi alla certezza di
far cosa grata a quanti in generale s’interesanno di belle arti, un’altra
considerazione m’induse a intraprendere la presente ristampa. Sentimenti di
affetto e di ammirazione mi legano a Paolo Mercuri: sentimenti oramai
tradizionali nella mia famiglia perchè avuti come in eredità dal
proavo, il quale da prima conobbe ed
ebbe in molto pregio l’ingegno nascente di chi dovea un giorno diventare
così grande nell’arte. E perciò, nel dare alla luce co’miei tipi
una nuova edizione della sua Vita, lungi dall’aver preso di mira il mio
pecuniario interesse, ebbi l’esclusivo pensiero
di rendere un pubblico omaggio al venerado ed illustre uomo di cui mi
pregio chiamarmi anche figlioccio.
Per questo intento dunque io mi
rivolsi al chiarissimo professore Ignazio Ciampi pregandolo a voler rivedere e
ritoccare, ove fosse necessario, il suo lavoro. Ed egli con diligenza lo rilesse, lo emendò in alcuni particolari,
vi aggiunse uno speciale capitolo sulle vicende del Mercuri dal 1870 in poi e
lo corredò di preziosi inediti documenti.
Non sarà poi discaro
che la presente edizione sia adornata del ritratto del Mercuri dovuto
all’abilissima matita dell’egregio pittore Guglielmo De Sanctis, il quale
gentilmente volle prestare, per essere riprodotto, il disegno in cui or’ora
traduceva dal vero le sembianze dell’amico, dell’artista che, senza tema di
adulazione, può chiamarsi una vera gloria non romana solamente, ma
italiana, se pure non vuol dirsi europea.
Roma, 15 agosto 1879.
VINCENZO SALVIUCCI
AVVERTENZA
SUI DOCUMENTI
Dalla celebre raccolta del Bottari alla
recentissima del Campori, le pubblicazioni delle lettere artistiche, pet motivi
che non occore ripetere, furono sempre acolte con gran favore e tenute in
altissimo pregio dagli studiosi. È quindi inutile raccomandare quelle
che qui sono presentate. È opportuno però dir brevi parole sopra
la scelta di esse e di altri documenti, che poteano anche essere più
numerosi, fatta tra le carte del Mercuri stesso.
Nello scegliere si è
avuto di mira un doppio scopo: illustrare vieppiù la vita del nostro
artista, e, allontanadosi meno che fosse possibile dal soggetto, dar nuovi
materiali alla istoria dell’arte nel presente secolo. E così, ad
esempio, per rispetto alla Vita del Mercuri, ora si comprovano i più
notevoli fatti ivi narrati (Doc. n. XIII, XVIII, XXII, LXV, ecc.), ora si
aggiunge qualche notizia all’elenco de’ suoi lavori secondari (Doc. n. XVI,
XXXV, LXX, ecc.), ora è
lumeggiato qualche tratto della sua mente e del suo carattere (Doc. n. VII,
XVIII, XXI, ecc.). Quanto poi alla storia dell’arte, crediamo che sieno per riuscire
accettissime quelle lettere, ov’è notizia di opere di altri artisti
rinomati, e segnatamente alcune, che
potrebbero raggiungere lo scopo di confutare molti erronei giudizî e di
raddrizzare non poche torte opinioni (Doc. n. III, XXXIII, XXXVIII, ecc.).
Si
osserverà che tra i nomi di tanti insigni italiani e stranieri (come
Bartolini, Minardi, Toschi, Dupont, Robert, Lehmann, Cornelius, Delaroche,
Ingres, Pistrucci, Mai, Rossini, Duprè ecc.) i quali s’incontrano a
volta a volta in questi documenti, molto più spesso risuoni quello di
Luigi Calamatta. Ed in vero egli ebbe più frequente, anzi, diremo,
continua corrispondenza cól Mercuri; tanto che le sue lettere sono in gran
numero, e ci hanno messo non di rado nell’imbarazzo della scelta. Ma se anche
non fosse stato così, noi avremmo preferito le sue lettere ad ogni altra
anche del più forbito scrittore. Il Calamatta scrive con negligenza;
talvolta non è troppo obbediente alle leggi della lingua e della
grammatica; non dà forma sempre precisa alle idee che gli si affollano
in testa. Ma pure si fa leggere con immenso piacere perchè è
fecondo di pensieri, maestro di giudizî artistici, pieno di cuore,
d’immaginazione, di vigore, di vivacità, ed anche in quello strano
connubio che fa del fraseggiare francese e romanesco, ci fa sentire la sua
indole eminentemente iataliana. Nel pubblicare dunque le sue lettere non ci
siamo permessi che qualche piccola correzione, in ispecie nell’ortografia e
nella punteggiatura e là dove era necessarissimo per l’ intelligenza del
testo. Quanto poi al contenuto, la corrispondenza del Calamata è
preziosissima per l’abbondante messe, ch’ella offre a chi piacesse studiarvi il
suo generoso e leale carattere e i più ragguardevoli fatti della sua
vita. Oltre alla storia di quasi tutte le sue opere, di cui dava a mano a mano
notizie al Mercuri, qua e là egli esprime idee giustissime e anche nuove
sull’arte, ch’egli osservava nelle opere degli stranieri e specialmente dei
Francesi, cól rilevarne i pregi e cól rimproverare audacemente all’Italia
artistica i sonni che essa dormìa sopra i suoi vecchi allori (Doc. n.
III, VI, ecc.). Non cessa però per questo di svegliar l’emulazione di
lei, e di ammirare, ove fosse uopo, la nostra pittura antica e anche la
moderna, come quando questa s’ incarnava nel Fracassini, di cui egli lamenta
amaramente la morte, dicendola sventura italiana (Doc. n. LXXXII, LXXXIV). Circa
all’affetto e alla stima ch’egli avea pel Mercuri, basti ricordare quel che gli
scrivea nell’afflizioni cagionategli dal Robert (Doc.n. XIX), e le parole:
<< Spero d’essere immortale solo per essere stato tuo amico>> (
Doc. n. VI). Vera e sentita poesia è nella descrizione del viaggio
pedestre da Firenze a Pisa insieme col figlio di Ciro Menotti, del quale crede
di veder l’ombra e di udir la voce (Doc. n. XXVIII): espressione d’immenso
affetto alla libertà e all’indipendenza d’Italia in molte letere, e
più singolarmente in quella dove descrive l’ingresso di Vittorio
Emanuele nella redenta Venezia (Doc. n. LXXXII). Tanto che noi stessi, adunando
e trascrivendo le sue lettere, ci siamo rallegrati che con la Vita del Mercuri
abbiamo anche raccolto materiali per illustrare la vita del suo grande amico e
compatriotta. Così Castore e Polluce (come dal Feuillet erano chiamati
il Calamatta e il Mercuri) anche in questo piccolo monumento letterario
staranno congiunti.
I.C.
I.
Principî dell’arte.
Paolo Mercuri fu di stirpe romana assai antica e, quantunque scesa in basso
stato, pur sempre feconda di civili e domestiche virtù. Il suo avo
Domenico, attendendo al traffico, vivea lietamente con un suo fratello. Ma
questi un giorno ruppe la inalterata armonia: perocchè, quantunque in
tarda èta, desiderò di ottedere in moglie una donna assai
giovane, e per averne il consenso, le fece anticipata donazione di tutto il
suo. Ciò dispiacque tanto a Domenico, che preso quello che gli spettava
del patrimonio, lasciò al fratello il Negozio dei panni, ed egli si
ridusse con la sua famiglia in certe vigne allora allora comperate fuori di
porta Portese. Quivi con la moglie e
cinque figli dimorava in modesta quiete, quando un altro amore e un altro
matrimonio venne a turbare la sua placida vita. Vicenzo, uno de’suoi figli,
bello e grande della persona, s’invaghì fieramente d’una giovinetta pur
bellissima di nome Barbara Battaglia e fu corrisposto di pari affetto. Ma i
genitori di lei, che aveano parentela con un cavalere di Malta chiamato Antonio
Gregna, tutti invasi da idee di nobiltà e ricchezza, eran contrarî a
questo matrimonio e con ogni sforzo gli faceano impedimento. Pur nondimeno
l’amore ebbe non facile vittoria: ma la giovane, che s’era congiunta a Vicenzo,
fu da’suoi privata d’ogni diritto presente e futuro ai lor beni. In tal modo
ella portò nella nuova casa solamente le vesti che avea indosso e
parecchi libri e qualque poco denaro de’suoi piccoli risparmî: in compenso
però vi condusse squisita educazione, virtù intera e sviscerato
amore a quell’uomo si die’tittoalla campagna studiandosi d’impare quanto
è mestieri all’agricoltura, e a mano a mano più raramente
tornò in città, finchè, cresciutagli la famiglia, se ne
tenne quasi del tutto lontano.
La sua industria campestre
fu alternata di prospere e cattive sorti: le cose volsero però al peggio
quando, durante l’affitto d’un podere, egli raccolse piuttosto polvere di
carbone che grano, e poi di caduta in caduta consumò al fine tutto il
suo piccolo capitale. In tale avversità non gli rimase altro partito che
acconciarsi, come vignarolo, presso i signori Persiani in una vigna fuori porta
san Paolo, d’onde nell’estate si recava a Roma per ischivare l’influsso della
mal’aria colà dominante. Poco prima di questi eventi, mentre ancora
dimorava nelle vigne fuori di porta Portese, la sua casa fu rallegrata da due
gemelli, che nacquero il dì 20 aprile 1804, di mattina, alle ore undici
italiane, e l’uno ebbe nome Pietro Gaspare e l’altro Paolo Baldassare, che fu
il nostro celebre artista. Ebbero battesimo nella parrochia di Santa Maria del
Carmine, detta la parrochietta, fuori di porta Portese circa tre miglia. Non
poteva però la tenera lor madre provvedere ad ambedue con latte del suo
petto, nè consentivano a valersi d’una balia le domestiche strettezze. Perciò
fu tolta una capretta e data alla madre in aiuto per alimentare i due
bambinelli. Lungo tempo rimase nella memoria
della famiglia e con affetto riconoscente si narrava parlari domestici
l’amorosa cura mostrata da quella intelligente bestiuola verso i due, come
avesse concienza del grazioso e importante incarico a lei affidato. Li leccava
spesso con la sua lingua, quasi baciandoli; scherzava con essi, e quando li
udiva piangere, accorreva e si ponea in quella positura che fosse accomodata al
loro poppare. Poco dopo ambedue i
bambini erano còlti dalla rosolìa: il primo ne morì, ma
Paolo fu salvo. Questi dunque, giunto all’età di cinque anni, dette
segno precoce della sua inclinazione alle arti figurative. Una signora venuta
per visitare i genitori di lui, gli facea dono d’intagli di carta, che, messi
dietro al lume, produceano ombre mutabili e fantastiche di uomini e di cose. Tanto
piacquero al fanciullo quei balocchi, che cominciò a farne di sua
invezione, poi a poco a poco crescendogli il diletto e l’audacia,
allorchè non avea voglia di toccar la penna, uscìa dal recinto
della vigna posta sulla riva del fiume, e con quel greto modellava uomini,
cani, cavalli e ciò che vedea, tanto che può dirsi che alui prima
maestra e nutrice fu la stessa natura.
Avvenne intanto che Paolo
Salviucci, libraio tipografo, propose a Vicenzo di prendere in cura un sua
vigna posta nel territorio di Marino. Questi accettò volentieri
l’invito, e ben presto si portò colà insieme con la sua famiglia.
La loro dimora era nel convento che fu degli Agostiniani allora cacciatine,
poco oltre la porta della cità. Come alla mente di Giacomo Leopardi la
solitaria biblioteca della casa paterna, così agli occhi del piccolo
Paolo furon prima scuola dell’arte alcune stampe, che, abbandonate e polverose,
pendeano dalle pareti del chiostro. Tra le altre vi era il grande e bel Cristo cocifisso dipinto dal Le Brun ed
inciso dall’Edelinck: stampa che dagli angeli preganti in cielo e in terra
piangenti, fu nominata il Pianto degli
angeli: degna compagna degli altri capolavori, quali sono la Sacra famiglia di Raffaele, il Ritratto dello Champaigne, la Maddalena, la Tenda di Dario. Non si saziava Paolo di guardarla e di mostrare con
atti e voci fanciullesche la sua compiacenza: non fu pago però
interamente che quando gli parve di averla in sicuro possesso, cioè a
capo al letto, come pregò ed ottenne dalla compiacente sua madre. D’allora
in puoi non furon più salvi nè carte, nè inchiostro,
nè penne in quella casa. Tutto era preso da Paolo e
adoperato a contraffare, o bene o male, ogni sorta di stampe. La tempesta fu
alquanto cheta, allorchè, compiuto un certo ritratto
Ella e non altri insegnava a Paolo a leggere e a scrivere,
e vegliava e presiedeva a’suoi giuochi. Avea questi un fratello già
giovinetto: ma sopra tutto amava una sorellina, con la quale correva e
scherzava gaiamente pei lunghi corridoi del convento. Sorridendo il Mercuri ricorda come un giorno, girando pel chiostro e
frugando da per tutto, ritrovarono dentro un armadio delle pianete di ganzo
d’oro. Se ne cuoprirono
ambedue, e dopo aver così passeggiato un pezzo, s’assisero sopra certi
seggioloni per cantar la messa. Ma quivi, come avviene ai bambini,
s’addormentarono, e in tal positura ridevole sorpresi dalla madre e sgridati,
furon privi per sempre di quel maestosso divertimento. La sorelluccia poi
s’ammalò e morì: di che Paolo fu così dolente che non
volea più mangiare, e solamente si confortò alquanto
allorquè la madre, già incita, gli promise un’altra sorellina. E
questa non tardò a venire alla luce il primo agosto del 1813
(tredicesima dei figli di Vicenzo e sola che col nostro sopravvisse) e fu
nomata Eurosia, in onore di una santa già da Paolo disegnata. Così
a mano a mano egli si confortò, e poi si rallegrò nel vedere
graziosa e ben portante la nuova venuta: laonde si die’un’altra volta al
piacevole gusto di ritrarre colla penna e col lapis tutto ciò che gli
occorreva alla vista e toccava l’immaginazione. Vispamente vagava e correa per
la vigna, e curioso d’ogni cosa naturale, talora sostava a guardar vipere e
serpi nei viali e tra l’erbe. Un giorno i genitori si penavano molto per non
vederlo ritornare a casa. Allorchè gioiosi lo rividero, gli domandarono
perchè s’era tanto indugiato. Ed gli con innocenzza raccontò
d’essersi fermato a guardare il giuoco di due serpenti, che l’uno rimpetto
all’altro si faceano dritti, e poi si attorcigliavano, e nuovamente divisi
saltavano a grande altezza. La madre spaventata lo garrì e gli
narrò paurose leggende e storie di serpi: onde dappoi Paolo cangiossi da
ammiratore in persecutore di essi, e munito di canne li cacciava e percoteva,
non senza suo pericolo, ovunque li trovasse.
Il
Salviucci, recatosi a Marino, avea visto le artistiche prove di Paolo, e lodatolo
molto, lo fornì poi di matite in copia. Riconoscente il fanciullo, gli
offerse e la Santa Eurosia imitata
col lapis da una stampa, e un Cristo
morto di rilievo intagliato col temperino in un osso di seppia. Tutto lieto
il Salviucci accettò quelle primizie, e le mostrò con onore del
piccolo artefice e con meraviglia dei riguardanti persino a dei professori
dell’Accademia di san Luca. Oltracciò promise solennemente di proteggere
il fanciullo per quanto fosse in lui: e mantenne poi con religione la sua promessa.
Intorno a
quel tempo fu pubblicata l’ultima napoleonica coscrizione, e Mariano, fratello
di Paolo, in essa compreso, benchè uscioto allora allora da una malattia
fu portato al quartiere delle milizie. Il padre con segni di gran dolore corse
dal maire o sindaco, e offerta invano
una somma pel riscatto, supplicò che almeno non lasciassero subito
partire il figlio così debole e malconcio qual era. Ciò gli fu
promesso: ma una notte, senza che il povero giovane potesse dar l’addio a’suoi
parenti, nè portar seco quel che gli aveano preparato per disastroso
viaggio, fu fatto celatamente partir da Roma. Montò in furia il padre
infelice, e non uccise colui, che gli mancò di fede, perchè Dio
non volle. Al fine, dopo vane ricerche e infinite angosce, giunse la mesta
nuova che Mariano, condotto a Lione e gittato sopra un letticciuolo d’ospedale,
ivi era morto. Ciascuno si può figurare il dolore della famiglia e
specialmente quello della madre, la quale d’allora in poi patì grande
alterazione nella già fiorente salute. E perchè un male ne chiama
un altro, così sopravvenne lo spavento d’un terremoto, onde Marino fu
scossa più notti, e caddero case e morirono più persone. Quindi
un fiero uragano, che spezzò i vetri delle finestre e le tegole del
tetto e parea volesse crollare la casa. Paolo dormente fu tolto in sulle
braccia dalla madre atterrita e portato fuor del convento in aperta campagna,
mentre le tegole investite dal turbine rotavano e cadevano con gran rumore e
minaccia intorno ai fuggiaschi.
Da ultimo
più luttuoso avvenimento. Stando Vincenzo a Roma per alcune faccende, la
moglie affaticatasi vicino al fuoco per allestire una conserva di frutti, se ne
ritrasse con la gola infiammata. La mattina appresso cioè l’11 novembre
1813, per cura se ne stava in letto; ma, porgendo il latte alla bambina che non
aggiungea tre mesi, fu assalita da acuto dolore, da una stretta alla gola
(effetto forse d’un vizio organico latente), e miseramente soffocata,
morì. Paolo era solo in quel momento. Tolse la bambina che pur suggeva
il latte dall’ancor tiepido seno della spenta, e con essa in braccio fattosi
alla finestra, chiamava con disperate grida la gente a soccorso. Salirono molti
e fra essi il marito, che proprio allora giungeva dalla città. Visto il
miserando spettacolo, questi si piegò sul corpo della poveretta, e
piangendo e abbracciandola, con voce affannosa la chiamava quasi sperando che
all’amata voce si riscuotesse. Ahi l’oggetto di tanto amore, di tanti dolori
insieme sopportati, e di sì pure e sublimi consolazioni non era
più! Perderlo così all’improvviso! senza una parola d’addio! Ella
toccava appena i quarant’anni: e fu sepolta nel cimitero di San Barnaba in
Marino.
La bambina
fu data a balia. Paolo non disegnava più.
II.
Sollievo alle dolorose lagrime dettero il tempo e il corso
d’altre vicende. La famiglia Mercuri dovea da Marino recarsi a Galliacano,
ov’erano altri possedimenti del Salviucci. Paolo che avea allora nove anni,
innamorato delle stampe del convento, volea tutte portarle seco, e non v’era
modo di sviarlo da quell’idea. Con molto sforzo finalmente lo persuasero a
contentarsi di due sole, conservate ancora da lui per memoria, cioè un Cristo che porta la croce, dipinto dal
Mignard e inciso d’allAudran, e un Gesù
presentato al tempio, dipinto dal Boullogne e inciso dal Drevet. Col suo
tesoretto e col malinconico pensiero della madre giunse al nuovo paese, e fu
accolto dal Salviucci nella sua casa. Quivi ammalatosi gravemente, guarì
per le cure avutegli da Orsola, moglie di Paolo Salviucci: e poi ripreso vigore sul colle di Santa Maria, nel
casino della vigna, a mano a mano si risvegliò alla vita e alla gioia
proprie della sua età, e riprese a disegnare, a colorire con sughi
d’erbe, a intagliar figure d’ogni fatta sul legno, a correre per la campagna, a
inseguire farfalle e serpenti.
Tornati tutti quanti a Roma, Vincenzo Mercuri
sorvegliava le vigne dei Salviucci fuori di porta San Paolo stava in casa di
quelli al Corso sul canto dei Tre ladroni,
ov’era il loro Negozio di libri e quivi presso, nel palazzo accanto a san
Marcello, la bella tipografia. Il vecchio Paolo Salviucci conduceva il nostro a
visitar chiese, gallerie, palazzi; insomma lo mettea nella conoscenza di Roma,
e fedele alla promessa fatta, egli stesso si prese cura di aprirgli la
desiderata carriera dell’arte. L’Academia di San Luca allora in sant’Apollinare
e dove insegnavano a quel tempo Landi, Agricola, Laboureur e Pozzi, accolse il
giovinetto: il quale dette subito sentore del suo svegliato ingegno, quando
messagli innanzi, senza fargli motto, una stampa di principî, cioè
occhi, nasi, bocche, volti di profilo e di faccia, egli, per non erare,
copiò tutto da capo a fondo assai bene, e n’ebbe grandissimi elogi dai
maestri. Così studiando assiduo, avvenne alcuna volta che tornò a
casa un poco più tardi per il soffermarsi che faceva a veder dipingere
il custode dell’Academia, un vecchio francese che avea nome Salos. Rimproveratone,
si guardò qualche tempo da ricadere nel fallo; ma vinto dall’artistica
vaghezza, si dimenticò poi del buon proposito: tanto che nuovi
rimproveri e appresso a questi un cambiamento improvviso nell’ordine della sua
vita avvenire.
O per questa
o per altra nascosta ragione, il Salviucci lo chiamò un giorno ed
espresse la volontà di porlo nell’Ospizio di San Michele a Ripa, ove,
secondo lui, era copia di più buoni ed utili ammaestramenti. A Paolo
dolea sommamente doversi separare da sì amata famiglia. Pur nondimeno
piegò, rassegnato, il capo, e chiese solamente per grazia di poter
rimanere ancora un poco nella scuola di Sant’Apollinare per dar termine a un
corso di lezioni d’anatomia dal vero già incominciate. Ottenutane
licenza, non cessò di lavorare a tutt’uomo, e in breve eseguì i
disegni anatomici in lapis rosso e nero, adoperando per dar nome ai muscoli le
opere di autori valenti. Ciò fatto, si pose a obbedienza del suo protettore;
e il 1o maggio del 1816, portatovi dallo stesso Paolo Salviucci (
che di suo pagava la pensione) entrò nell’Ospizio di San Michele: in
quell’Ospizio, che creato a educare i giovani del popolo ai mestieri più
necesarî, più sicuri e, per il maggior numero degli uomini, anche
più dignitosi, fu poi, per mollezza e vanagloria di chi lo presiedeva,
deviato dal suo santo scopo e fatto semenzaio di scultori, pittori e
architetti, i quali, uscitine e non trovando lavoro (impossible per tanto
numerosa caterva), strascinavano una sterile, fastidiosa vita tra la boria d’un
merito immaginario e l’umiliazione d’una invincibile, uggiosa miseria[3].
Il Mercuri,
entrandovi, pensava forse a qual ramo di arti si sareble appigliato, e sognava,
a compenso delle dolcezze che avea perduto, abili maestri, comodi studî, futuri
trionfi. Cadde però subito da ogni lieta immaginazione, quando si vide
condotto dentro l’ officina d’un libraio.
Ne domandò la ragione, e gli risposero, sorridendo,
ch’era per avviarlo a quella professione, e ciò per ordine di chi
poteva. Egli allora a gridare e a protestare ch’era ivi venuto per attendere al
disegno e non già per tagliar carta e legar libri, e gli spietati suoi
conduttori a ridere di nuovo e poi a far viso torvo e a dire che lì
dovea rimanere o per amore o per forza. Allora egli, infuriando, si diede a
fuggire, e correndo velocemente, uscì fuori dell’Ospizio. Raggiunto da
uno de’prefetti che gli mosse dietro, ricalcitrava ancora, e con forza maggiore
di fanciullo si divincolava, e alla fine s’indusse a tornare al suono d’una
solenne promessa che i suoi desiderî sarebbero appagati. Il presidente
dell’Ospizio, monsignore Olgiati, si trovò a pie’della scala, quando il
piccolo fuggiasco fu ricondotto. Amorevolmente però lo raccolse, e udite
le sue ragioni, egli stesso l`acompagnò a Francesco Giangiacomo, ch’era
il maestro del disegnare, acciocchè gli mettesse l’arti alle mani.
Qui comincia
veramente la vita artistica del Mercuri, imperocchè nell’Ospizio di San
Michele non solo imparasse, ma anco facesse opere che non saranno dimenticate
dai posteri. Se non altro ebbe ivi la ventura d’incontrarsi con quel giovane,
che poi fu illustre io dico il Calamatta; ingegno caldo, fecondo e capace di
quell’amicizia, che nè per tempo, nè per vicende, nè per
cangiare di climi o di Fortuna si muta o vien meno. Quivi s’incontrarono e
s’amarono poi sempre, anche a Parigi, in mezzo alla fama crescente d’ambedue,
nell’esecizio dell’arte medesima, fonte, più che di dolci legami,
d’invidie, d’inimicizie ai volgari in balìa dei maligni, i quali
gioiscono delle gare stizzose degl’ingegni e ne fanno argomento di consolazione
alla loro nullità disperata.
Il
Giangiacomo prese in grande affetto il Mercuri, e dirigendolo nelle copie dei
gessi e dei cartoni, gli permetteva anche di andare insieme col Calamatta e
altri giovani all’Academia per istudiare il nudo. Nel primo anno Paolo fu considerato; nel secondo anno(1820) ebbe
il primo premio, che, dopo i tre anni necessarî di aspettazione, gli fu
nuovamente conferito. Fra queste occupazioni non gli facevano difetto i
conforti del padre e dei Salviucci. L’uno, nella visita consueta d’ogni
domenica, gli donava del denaro, da lui impiegato in buoni libri; gli altri
andavano spesso a trovarlo, e il buon Paolo Salviucci talvolta lo portava a
passeggiar seco e a fargli osservare le cose notabili di Roma[4].
Se non che questi, appunto verso il 1820, dopo brevissima
malattia, passò a miglior vita, e lasciò assai dolente il nostro,
che in lui perdeva, più che un protettore, un secondo padre, un amico. Non
ristettero, è vero, gli altri Salviucci dal mostrarsi benevoli verso il
Mercuri professandogli continua affettuosa amicizia.
Somigliantissima poi per ingegno e per animo a Paolo suo
padre, Matilde Salviucci (maritata in apresso a Vincenzo Poggioli, avvocato)
scambiò sempre con il nostro fraterna tenerezza. Ma tropo avea il
Mercuri radicato nel cuore l’affetto e la venerazione verso il cortese vecchio,
da non sentire amarissimo e profondo dolore di averlo perduto.
A distrarre Paolo con necessarî studî il Giangiacomo lo
mandò nelle
Camere vaticane a disegnar le opere di Raffaele. In tal
guisa la giornata del nostro era piena e proficua. La mattina all’Academia pel
nudo; indi al Vaticano; la sera nelle stanze dell’Olgiati a copiare stampe e a
leggere buoni libri. In queste serate lesse tutto il Winkelmann, e si
servìa d’una grammatica greca per interpretare almeno i nomi proprî
nelle citazioni di quell’insigne lavoro.
Non vuolsi qui tacere un grazioso aneddoto. Usciva Paolo
di buonissima ora per andare all’Accademia; si recava poi subito alle Stanze
vaticane, nè tornava all’Ospizio che verso sera, passando così
digiuno l’intiera giornata. Pativa quindi veramente la fame e correa pericolo
di ammalarsi. Nè di ciò egli facea motto ai suoi superiori per la
tèma (immaginaria forse) che gli venisse tolto il permesso speciale per
cui potea assentarsi dall’Ospizio: tanto egli era avido di studiare! S’accorse
però di tal fatto un uomo insino allora sconosciuto al Mercuri. Questi,
che si chiamava Zeffirino Sirletti ed era custode delle Camere di Raffaele, gli
offerse di dividere insieme il suo pranzo; e perchè Paolo si mostrava
esitante ad accettare, gli fece credere, con delicato pensiere, che ciò
facea per incarico e a tutte spese dell’Ospizio. E solamente quando, finiti gli
studî, il Mercuri ne ringraziava l’Olgiati, potè sapere il vero della
squisita cortesia ricevuta.
All’Olgiati succeduto un altro preside (Cicalotti),
questi, continuando la benevolenza dell’antecessore verso il Mercuri, gli
permise insieme con un altro giovane di uscire talvolta dall’Ospizio in abito
borghese. Nè ciò bastando, gli concesse due grazie: l’una che
fosse dispensato dal pagar più la pensione: l’altra, che la sua sorella
Eurosia fosse ammessa nel Conservatorio delle donne nell’Ospizio medesimo.
Il disegno a San Michele avea, tra le arti belle, per
iscopo quella dell’incisione. Furono perciò a Paolo maestri Antonio
Ricciani, fatto poi direttore dell’Accademia di Napoli, e Domenico Marchetti,
entrambi valenti. Così egli ebbe modo di trattare il bulino a tempo
giusto; imperocchè si sappia che siccome il maneggiar troppo presto il
bulino distoglie dalla matita e fa gli alunni riuscire incisori meccanici;
così tardano oltre il dovere l’uso dei ferri, la mano diventa men
pieghevole e il buon disegno non salva dal divenire, anzichè artisti,
graffiatori del rame. Varie cose eseguì allora di bulino: un Sant’Eligio, una Madonna addolorata, una Santa
Firmina tutt’e tre a contorno, e di sua invenzione un San Giuseppe disegnato e inciso a tutto effetto, a all’acqua forte
l’Assunzione di San Domenico. Nel San Giuseppe l’artista già mostra
la purezza del suo disegno, e senz’essere ancora originale, dà a
dividere quella maniera, onde poi fu eccellente, nel chiaro e luminoso, direi,
delle figure, e nel tratteggiare con differenza le carni secondo che son di
giovani, di donne, di vecchi. Il bambino da San Giuseppe tenuto in braccio,
accostato al volto di questo, spicca nella sua molle carnagione presso le
guance e le mani del vecchio robusto, e sembra in tutte le parti della persona
mostrar lume divino[5]. Ma tal sorta di lavoro non appagava
punto il giovane, ed ei si struggeva dal desiderio di apprendere l’arte della
pittura. Intanto senz’alcun maestro vi si provara, ed eseguiva a olio e a
tempera varie cose, che vedute pure adesso, non solamente paiono di mano matura
o almeno bastantemente …..
Pratica, ma anche sono commendevoli per se stesse e tali che se ne potrebbe
vantare qualunque artista. Inventò e dipinse a olio un San Filippo Neri, un San Luigi Gonzaga per il parocco
Fazzini, il quale lo incoraggiava donandogli di che comperarsi i colori [6],
e parimente fece a olio due Madone
che si conservano ancora nella chiesa di San Michele. A tempera esseguì
tre rappresentazioni di quelle che usa di fare a Roma nei giorni della
commemorazione dei morti, intagliando le figure di naturale grandezza dipinte
sul cartone e disponendole all’uopo con in fondo l’apposita scena. La prima fu Giuseppe in carcere che spiega i sogni ai
coppieri di Faraone; l’anno appresso Giuseppe
riconosciuto; da ultimo Giuditta che
mostra la testa d’Oloferne. Curò di dare alle figure quel rilievo
che bisognava perchè paressero vive, e in tal modo raggiunse l’effetto
dell’illusione ottica, e ne riscosse vivissimi e sinceri applausi. Oltraciò
compì molti ritratti, e fra gli altri disegni fece quello del quadro di San Michele e di una Madonna col Bambino e San Giovannino[7] ramente
degno, invano desiderò. Da un certo monsignor Ponari, nel gennaio 1821,
gli furon commessi parecchi quadri per la chiesa di San Pietro a San Germano in
Terra di Lavoro. Ed egli eseguì in fatti un quadro d’altare rappresentante
Gesù che dà le chiavi a San
Pietro in presenza degli apostoli; una Madonna
in gloria e poco più sotto di
lei San
Benedetto e Santa
Scolastica; un Cristo grande, che
mostra il cuore, coi cherubini ai lati; un San Mauro abbate ed un San
Placido, ambedue monaci benedettini, ed ognuno di essi in mezza figura. E
con tanta cura vi si adoperò, che prima di dipingere i due primi di
questi quadri, modellò in creta tutte le figure per meglio studiarne
l’effetto. A quale altezza giungesse in età così verde,
sarà testimonio perenne il Cristo
morto di naturale grandezza, ch’egli fece nel 1822 per un paliotto
destinato alla festa o commemorazione del Santo sepolcro. Il quale, conservato
sempre a San Michele ed esposto nel 1870 alla pubblica vista nel chiostro di
Santa Maria degli Angeli, fe’impallidire le tele di coloro, che nel tempo della
giovinezza del nostro erano già provetti e troppo famosi: di coloro,
dico, che s’erano ben nutriti dell’antico e di Raffaele, ma non li aveano ben
digeriti. E per vero non si può desiderare in tal lavoro più
studio della natura congiunto a elezione di forme convenienti alla
divinità. Veramente il Mercuri poteva essere un gran pittore, e non gli
si può perdonare di non esser giunto a ciò, che per la gloria
acquistata sopra tutti nell’incisione, onde meritò che in Francia gli
dicessero, allorchè espose la Sant’Amelia:
«Egli scrive sotto i suoi rami: Mercuri pittore. O signor Mercuri! Voi dovete
essere davvero un gran pittore: ma per l’evvenire dell’incisione, per l’amore
di quest’arte, ve ne preghiamo, restate incisore![8]»
Intanto il buon sacerdote Fazzini, vista la valentia del
giovanetto, gli facea, secondo suo potere, da Mecenate, e continuava ad
animarlo dandogli commissioni di varî santi e madonne a tutte sue spese. E fu
pure il Fazzini che gli fece dipingere per l’Ospizio il detto Cristo morto.
Nè per questo il Mercuri lasciò
l’esercizio dell’incidere: anzi con un solo bulino imprestatogli fece il
ritratto di Fra Giovanni da Capistrano,
che fu Generale dell’ordine di San Francesco: nel qual lavoro (eseguito
nell’ore della notte) già balenava quel non so che tutto suo ed
originale mostrato così altamente dappoi. Doloroso è a dirsi; ma
per certo se tale stampa fosse stata pubblicata in altro paese, avrebbe posto
subitamente il giovane fra i grandi artisti. Voi vedete quella testa spiccarsi
vera e viva dal fondo: quegli occhi parlano; quella bocca par che da un momento
all’altro stia per farvi udir suoni articolati. La luce, che batte sul lato
sinistro del volto, dà ombra al destro e in questo illumina alcune parti
prominenti; e nell’ombra non è l’oscuro dei tratti, ma un freddo lume
che gira. Tutto è finito; nè le minuzie diatraggono dall’insieme;
e, come nel vero, da vicino contate le rughe, da lontano abbracciate senza
impaccio la generale espressione del volto[9]. Difficile è il rinvenimento
delle copie di questa stampa, e chi è sì fortunato di trovarla,
la ritiene per tesoro da porsi a capo della serie a mano a mano più
preziosa delle opere del Mercuri.
Così l’alba della vita artistica a questo
sorrideva lietissima. Il Canova recatosi a vedere il quadro di Gesù e San Pietro dipinto per San
Germano, se ne mostrò appagato assai, e incoraggì il novello
pittore e gli promise il suo appoggio. Una società, a cui era affidata
la pubblicazione del museo di Madrid, voleva inviarlo in Ispagna[10]. Lord Kinnaird tre volte chiese il
giovanetto al Consalvi e prometteva di dargli numerose ordinazioni a Londra :
ma il cardinale non acconsentì dicendo che non volea toglierlo a Roma e
che lo avrebbe con molto decoro provveduto. E per vero l’avea già
presentato a Pio VII, il quale concesse al Mercuri una pensione di cinque scudi
al mese per tre anni (14 settembre 1821).
A un tratto, come uno spirito infernale si fosse
compiaciuto di tormentare una nobile anima, o veramente fosso scritto che
questa dovesse divenir più grande per via d’ immeritate sciagure, ogni
più bella speranza svanì d’improvviso.Il sommo Canova, partito
per Venezia, colà poco dopo moriva. Pio VII pure chiudeva gli occhi per
sempre : il Consalvi seguiva nella tomba il suo sovrano.
Nè dalla prostrazione, in cui era, fu il povero
Mercuri potuto rilevare dal francese Camillo Bonnard, che gli ordinava il
disegno in grande del Giudizio di
Michelangelo per eseguirlo poi il litografia. Imperocchè sebbene vi
fosse l’editore (un certo Motte), e già le pietre e i torchi stessero
là pronti; il nuovo pontefice Leone XII per quelle idee retrive, che lo
fecero sì tristamente famoso nella storia, non volle dar licenza alla
diffusione dell’ammirabile pittura, e coloro, ch’erano a capo dell’impresa,
furono costretti a vendere tutto ciò, che avean preparato, al pittore
Camuccini: il quale se ne servì per esseguire la vita di Gesù
Cristo da lui inventata.
Un filo di speranza pur rimaneva a Paolo, ed era un quadro
commessogli per l’altar maggiore dell’oratorio del Caravita. In quell’anno appunto, e fu l’8 novembre 1825, uscì dall’Ospizio di San
Michele[11],
e presse in affitto una stanza adatta all’eseguimento
Non deve tacersi che nel periodo, che corse dal 1826 al
1830, il giovane artista ebbe l’onore di essere scelto a dar lezioni di disegno
a Giovanni figlio di Carlo Thevenin già direttore dell’Accademia di
Francia, e anche alla figlia di Orazio Vernet, che allora dirigeva la detta
Accademia. Questa giovinetta fu poi moglie del celebre pittore Paolo Delaroche.
Fu allora que il Bonnard lo invitò a disegnare e ad
incidere a contorno i Costumi
Il suo padre avea sposato da qualche anno in seconde
nozze una onesta vedova di nome Maria, e se la vivea ritirato in campagna coi
proventi che gli davano una vigna da lui condotta fuori porta San Paolo e
un’osteria posseduta dalla sua moglie ivi presso. Questa però avea un
figlio del primo letto, il quale, crescendo in età, a mano a mano
spiegava la sua indole astiosa, litigiosa, intollerante d’ogni ragionevole
freno. Il solo patrigno era quello che, talvolta usando dell’autorità
concessagli dal suo stato, gli s’opponeva, e cercava correggere in lui gli
eccessi del bere, del giuocare e persino del ciuffar denari alla casa. Era
dunque naturale che contro il patrigno si volgesse tutta la stizza del giovinastro,
la quale mutossi in odio irreconciliabile. Così stando le cose, un
giorno (4 novembre 1829) che Paolo nel suo Studio era intento all’incisione di
non so qual tavola dei Costumi, ebbe
l’infausta notizia che suo padre era stato percosso mortalmente nel capo dallo
scellerato figliastro. Fu per cader morto dal dolore. Ma ripreso figlio,
uscì e corse all’ospedale della Consolazione; e là trovò
il padre, che da prima creduto spento, avea a poco a poco ricuperato l’uso dei
sensi. Il misero era stato colpito da una oggetto pesante sull’alto della
fronte a destra, e avea rotto l’osso del cranio. Rassegnato, tranquillo,
Vincenzo accolse suo figlio, e parlò di perdano con tanta veemenza, che
Paolo, per tema che il sì caldo discorrere gli nuocesse, fece forza
sopra se stesso, e per ridurlo al silenzio, suo malgrado, s’allontanò. Partì
desolato e pieno il cuore del desiderio di vendicare il suo sangue. Transportato
da sì fiera passione, si trovò per la via di San Paolo, e cercava
con ansietà il feritore per ucciderlo od essere ucciso. Alcuni monaci di
quel chiostro incontratolo così fuori di sè, gli dissero che il
reo già stava nelle mani della Giustizia . Allora egli volse di nuovo il
frettoloso passo all’ospedale, e potè ancora rivedere per l’ultima volta
l’infelice suo padre, che il 16 novembre, in età di 53 anni, spirava. L’angoscia
di Paolo fu quale può immaginarsi in un cuore sì amorevole,
appassionato[14]. Tutti dell’ospedale piangevano al
suo pianto; e la morte d’uno sconosciuto si fece per istinto di pietà
quasi domestica sciagiura. Non potendo altro, Paolo supplicò per avere
il cranio del padre, e quello da uno dei più giovani medici poco dopo
gli fu dato. Lo conservò egli
religiosamente: anzi, postolo in bene adatta custodia, lo tenea nel suo Studio
sempre innanzi a’suoi occhi. Partitosi però da Roma, da cui non credea
dilungarsi per tanto tempo, la preziosa
memoria quivi lasciata fu deposta da Giuseppe Salviucci in una sepoltura della
chiesa dei Santi Apostoli; ma non una piccola pietra segnò il luogo in
cui giace: di che ebbe Paolo immenso dolore. Il corpo
IV
La
Sant’Amelia ‑ Il Mercuri
è posto fra le grandi glorie
dell’arte
‑ Il Torquato Tasso ‑ Il Cristoforo Colombo –
Altre
opere ‑ Giovanna Gray ‑ Il Mercuri è chiamato a
Rorna
‑ Saluti della Francia all’artista italiano.
Il plauso suscitato dalla stampa dei Mietitori,
fe’nascere negli editori Rittner e Goupil il desiderio di valersi della
stupenda valentia del Mercuri. Avvedutamente pensarono che una pittura,
benchè men bella, ma più variata, avrebbe potuto esercitar meglio
l’ingegno dell’incisore: e a quest’effetto scelsero il piccolo quadro della Sant'Amelia, di Paolo Delaroche.
Una graziosa
regina vive in alcune stanze d’un poema ungherese e nelle popolari leggende dei
nordici paesi. La rappresentano giovane, bella, amica dei poveri, ornata di
dolci e sublimi virtù. Avea in costume di recarsi, ogni mattina,
accompagnata dalle sue ancelle, a pregare in un tempietto od oratorio posto nel
mezzo del suo giardino, e di offrire a Dio quei fiori, ch’ella amava tanto e
coltivava con le sue mani medesìme. Fu rapido il corso della sua vita, e
la sua gloria non fu che un leggiero rumore, una delicata armonia perpetuatasi
gratamente fra molte e lontane generazioni. Paolo Delaroche ne risuscitò
le sembianze, e ne fece un quadro per la cappella della regina alle Tuilleries. La santa è vicina all’altare
col suo bel diadema sul capo : posa i ginocchi sopra un cuscino di seta e d’oro:
levati gli occhi, offre sovra un paniere bellissimi fiori. Splende l’altare di
sacri oggetti della più grande magnificenza. Ancelle inginocchiate le
sono accanto: un’altra indietro alla sua sinistra: nel fondo le colonne di marmo
della cappella: lontano la solitaria campagna. Molta lode ebbe il Delaroche per
la sua opera; ma vi fu pure chi disse il finito della pittura degenerare
talvolta in secco; il carattere delle teste non esser così alto come
forse immaginava l’autore; una delle figure delle ancelle ricordar troppo
qualche cosa dell’Holbein; in somma non doversi porre quel quadro tra i più
belli del famoso maestro [15].
Quindi maggior plauso si meritò il Mercuri che seppe a meraviglia
rendere le bellezze dell’originale evitandone i difetti, e con rara pazienza e
maestrìa dette segno di abilità pratica maggiore di quella che
avea mostrato nei Mietitori, e superò
se stesso e l’aspettazione universale. « Se v’ha qualcuno (diceva un riputato
giornale), il quale preferisce i Mietitori,
ciò si deve al maggior merito del quadro imitato anzichè al
maggiore ingegno ivi mostrato dall’incisore. La Sant’Amelia era una pittura fatta con diligenza minuta: ma il colore
e il tòcco di essa un po’monotono si prestava all’arte dell’incisione
assai meno della ricca e calda pittura del quadro del Robert [16]».
La bravura del Mercuri fu levata a cielo, e l’opera fu detta un portento di
bulino, un diamante, che sarebbe invidiato dagl’incisori passati, e che sfida
sicuramente tutti gl’incisori avvenire.
Posto il Mercuri fra le glorie più grandi dell’arte (1837), il
Delecluze scrivea: « Da qualche anno tutto parea far temere che in Francia s’abbandonasse
l’incisione a taglio dolce. Ma lo zelo di alcuni amatori e l’ingegno
considerevole di alcuni artisti francesi e stranieri, hanno rialzato compiutamente
questa bell’arte. Le preziose opere di Forster, Henriquel Dupont, Muller,
Prudhomme, Prevost, fanno fede di ciò che diciamo: ne fanno fede le
belle stampe cavate dai quadri dell’Ingres, Delaroche, Robert, testè,
dateci dal Mercuri e dal Calamatta. Tra gli editori, che per la loro
intelligente operosità meritano più lode d’aver conservato il
gusto dell’incisione a taglio dolce, debbono segnalarsi i signori Rittner e
Goupil. Senza parlare di altre pubblicazioni assai bene accolte, sono essi che
han fatto incidere al Calamatta l’ammirabile quadro dell’Ingres rappresentante
il Voto di Luigi XIII [17];
son essi che hanno incaricato il Prudhomme di riprodurre la pietosa
composizione dei Figli d’Edoardo di
Paolo Delaroche; ed ultimamente hanno messo sotto gli occhi dei conoscitori un
piccolo capo d’opera d’incisione in taglio dolce di Paolo Mercuri. In questo l’abile
incisore ha colto l’occasione di porre in rilievo tutto ciò che sa far
di fino, di puro, di soave col suo delicato bulino...[18]
E un articolo d’un altro giornale, dopo grandissime lodi, soggiunoeva:
« Citeremo in
favore di questa stampa un suffragio, del quale nessuno negherà la
competenza in fatto d’incisione; quello dell’illustre inglese Doo. Poco fa un
dilettante gli presentò a Londra l’incisione. Dopo averla esaminata con
la lente accuratamente e, lungo tempo, egli disse e ripetè con
entusiasmo: È cosa stupenda! Io non credeva che la pazienza e l’ingegno
potessero a tal grado esser congiunti in un’opera di bulino! Il successo di
questa stampa è stato grandissimo. Essa è in tutte le cartelle [19]».
Non altrimenti gridarono i più reputati strumenti della pubblica
opinione a Parigi e nel resto della Francia [20].
E fu allora che il celebre Doo, sebbene non conoscea personalmente il Mercuri,
si affrettò a mandargli due delle sue incisioni in attestato della sua
alta stima. Credo però che al cuore del Mercuri fosse d'ogni lode
straniera più grata quella che gli giunse da Roma, dal suo maestro
Domenico Marchetti, che gli ripeteva gli encomî fatti dal Calamatta e vi aggiungeva
i suoi con calde e commoventi parole [21].
Ma non fu senza
gravi travagli il suo felice successo. È da sapere che gli fu dato dai
committenti un acciaro a metà temperato. Egli, che mai non avea inciso su
quel metallo, si pensò che tutti gli acciari fossero così duri:
pur messovisi sopra, tagliava con molta fatica, e sebbene vi lavorasse
indefessamente, avanzava ben poco la sua opera. Finitala, ne fe’stampare dallo
Chardon cento copie per avantilettere, le quali, essendo più fresche,
oggi non han prezzo che le paghi. Dopo ciò un garzone della stamperia,
che voleva vendicarsi di non so che torto fattogli dallo Chardon, fece passare
il rame a rovescio nel torchio, cosicchè tutte le teste ebbero sfregi
per traverso. Grande fu l’ira e lo sbigottimento del Mercuri, che
domandò come fosse avvenuta la grave sciagura. Lo Chardon volle celargli
il vero rispondendo che ciò qualche volta avveniva, quando l’acciaro
non era egualmente duro in tutte le sue parti. Il Mercuri, che avea provato a
sue spese la durezza di quell’acciaro, a gridargli che mentiva per la gola, e
che se gli avesse detto la verità, in luogo di chiamarlo al tribunale,
come si meritava, avrebbe cercato qualche rimedio al male ancorchè fosse
cosa assai difficile. Lo Chardon si ostinò nella menzogna. Il Mercuri
allora lo chiamò a render ragione: e i periti innanzi al tribunale
dichiararono essere impossibile, quel che lo stampatore aveva asserito. Questi
dovette pagare un’ammenda, e il Mercuri con molta pena e studio e tempo
cercò di rimediare al danno, e in parte ottenne il suo scopo.
Frattanto non
cessava dal disegnare e dal dipingere. Una volta disegnò una Pazza dal vero, e mandatala al
Calamatta, questi la mise nell’Esposizione di Brusselles. Circa poi il
dipingere, già si sa che questa era la sua, vera passione. Infatti
poneva a pie’del rame della Sant’Amelia
l’aggiunto di pittore quasi a protesta contro la fortuna, che lo forzava a
maneggiare il bulino invece del pennello. Orgoglio ben giusto e ch’è più
bello, quando si pensi ch’egli d’altra parte era sì modesto e sì
poco curante delle ricchezze! Osservò intanto che l’olio adoperato in Francia
facea presto ingiallire i colori: e quindi li macinó con olio di lino purgato,
e usò molte velature nel dipingere, raggiungendo lo scopo di far conservare
i suoi quadri, anche dopo lungo tempo, freschissimi. E le sue opere allora
furon queste. Un ritratto in grandezza naturale di Margherita moglie del Michelini
italiano, mercante di camei stabilito a Parigi; un ritratto intero di
grandezza naturale d’una Bambina, che tra i fiori giuoca con un coniglio;
della stessa grandezza il ritratto di Paolo
Grand in abito di avvocato; una Santa
Margherita di mezzana grandezza per la Michelini (1845); una piccola Ester per il suo amicissimo Edoardo
Grasset in quel tempo console di Francia a Giannina, e per lo stesso una
piccola mezza figura rappresentante la Fedeltà.
Dipinse anche una Pia de’Tolomei, mezza figura grande al vero, acquistata
dal conte di Espagnac per la sua galleria; e poco prima di partire da Parigi
pose mano ad un ritratto di sua sorella Eurosia,
il quale non fu finito. E tra le cose di minor conto i ritratti della Madre e figlia Lemeneux, d’una Signora greca, ed altro, che fu portato in Oriente. A penna poi e a matita assai
disegni, che per la eleganza, la squisitezza e il concetto si conservavano e
si conservano dai conoscitori gelosamente [22].
Nella casa del Tasso a Sorrento si ammirava un suo ritratto dipinto al vivo da
Scipione Gaetano. I successori del Tasso, nella prima invasione francese, lo
donarono al general Mac Donald, il quale nel sacco di Sorrento aveva fatto
rispettare la casa del poeta [23].
Di esso quindi andava in cerca il Mercuri per eseguire un’incisione
ordinatagli da Francesco Salviucci di Roma nel 1841. Dovea ornare una nuova edizione
della Gerusalemme, che poi non venne
alla luce [24]. Ma per quanto facesse,
non potè il nostro trovare allora quel prezioso quadro, e fu costretto a
contentarsi della maschera e delle descrizioni rimasteci. Veramente nessuno
vide il grande e infelice più vivo e vero in alcuna pittura e in
eloquenti parole, quanto nella piccola stampa del Mercuri, ove non sai se
più lodare l’esecuzione materiale o lo spirito poetico e mesto dei
lineamenti e degli occhi quivi diffuso. Io stesso, ch’era in quel tempo fanciullo,
posso attestare, che veduto quel ritratto nelle vetrine dei librai o negozianti
di Roma tirare a sé gli occhi stupiti e contenti dei passeggieri, sin d’allora,
sebbene mi suonasse novellamente agli orecchi, ebbi caro e onorato il nome di
Paolo Mercuri. Il rame del Tasso
donato dal Mercuri al detto Francesco Salviucci, fu da questo lasciato a’suoi
figli. Ma in seguito, avendone l’artista richiesto notizie al suo figlioccio
Vincenzo, la ebbe assai spiacevole, cioè che s’era miseramente perduto.
Ben ora degno che al ritratto del Tasso seguisse quello di Cristoforo Colombo. Si faceano allora i disegni e le incisioni della galleria
di Versailles ordinati da Luigi Filippo e diretti dal Mercuri e dal Calamatta.
Il Gavard, che la pubblicava, desiderò ed ottenne che il nostro la
ornasse di qualche cosa di suo; e questi da un antico quadro incise in acciaro il
Colombo (1843) ammirato quando fu
esposto a Parigi con altri suoi disegni nel 1844. Ancora si volea mettere a
capo dell’opera il ritratto del re; e il Mercuri ne delineò dal vero la
testa e stava per inciderla, quando Luigi Filippo cadeva dal trono. Richiesto
poi di quel disegno, lo dette a chi gliel domandava. Al Tasso e al Colombo venne
appresso il Condorcet eseguito sull’acciaro
da un ritratto disegnato a mezza macchia da Augusto de Saint Aubin nel 1786 e
messo innanzi al Mercuri dalla stessa figlia dell’uomo illustre, (1846).
Parimente in acciaro fu l’incisione del ritratto della Maintenon, tratto dal dipinto in ismalto del celebre orefice e
pittore del secolo XVII Giovanni Petitot, e della stessa grandezza [25].
Gli fu ordinato dal duca di Noailles per la storia ch’egli scrivea di quella
celebre semiregina (1845). Altri disegni poi da lui fatti furono eseguiti da
altri; e sovra tutti è notevole il ritratto di Luigi Blanc inciso dal François (1845), e quello di se medesimo (1840) inciso poi dal
Calamatta [26].
Varie
erano le opere, a cui s’era accinto o stava per accingersi, dopo le accennate,
il Mercuri. Stando alla direzione dei disegni e delle incisioni della galleria
del marchese Aguado, spagnuolo, venne invitato da questo a intagliare qualche
oggetto della sua collezione. V’era un piccolo quadro in legno d’una Madonna
col bambino detto la Madonna d’Orleans, dipinta da Raffaele nel principio della
sua seconda maniera. Ei la scelse, la lucidò dall’originale, la trasportò
in più piccolo per mezzo del diagrafo, ne eseguì il disegno della
grandezza stabilita per tutte le incisioni di quella galleria, e ne avea
incominciato sin dal 1840 l’incisione in acciaro. Dalla Spagna gli era stato
ordinato il ritratto della regina e del principe suo sposo; da Roma il Parnaso di Raffaele. Non venne a fine il
contratto per differenze sul prezzo: in compenso però gli fu dato
libertà di scegliere un soggetto (e fu da lui scelta la Madonna di Foligno), pel quale i
contraenti vennero a conclusione della mercede. Dovea quindi recarsi a Roma per
fare il disegno; ma, essendone a lui ignote le ragioni, non ebbe più
risposta su tal proposito, e tutto andò a monte. In sì fatte
trattative, non cessava di occuparsi dell’incisione ordinatagli dai soci
Goupil e Vibert della Giovanna Gray
sul quadro di Paolo Delaroche. Incominciatala da qualche anno, verso la fine
del 1848 ne affrettò il lavoro, perchè da Roma ebbe l’offerta del
posto di Direttore nella Calcografia Camerale procuratogli per le speciali
premure del professor Minardi, ed egli, accettandolo di buon grado, avea
chiesto e ottenuto uno spazio di tempo sufficiente ad assestar le sue cose [27].
Per far dunque risparmio di tempo, gli venne in idea di valersi dell’opera d’un
tale incisore d’architettura, che avea già messo le mani nel rame
rappresentante Lord Strafford
(pittura dello stesso Delaroche) inciso da Henriquel Dupont per esser compagno
del suo. A costui dette incarico di preparare il fondo; il che compiutosi,
bisognò cercare chi dèsse al rame l’acqua forte, perchè
quell’artefice si dichiarava inabile a ciò. Capitò per isciagura
innanzi al Mercuri un certo Jeanneret, uno di quelli, che a forza di ciarle e
vanti si fan tenere per valenti e in ispecial modo guadagnan gli uomini di
buona fede: benchè, a dire il vero, il nostro, corrivo nel resto, in
fatto d’arte era molto avveduto e non credea che a’proprî occhi. Ma egli in
questo caso non potè pensare che l’impostura giungesse a tal punto da
mostrar saggi di buone opere, che senza dubbio eran d’altri e non dello
Jeanneret, sebbene questi, con molto vampo, gliele mostrasse e le dèsse
per sue. L’evento chiarì presto la nascosa ignoranza. Imperocchè,
trascorsi assai giorni e non vedendo ritornare col lavoro quel tristo, il
Mercuri, insospetitosi, corse da lui, e con grave dolore vide il suo bel rame
orrendamente rovinato dall’acqua forte data senza cognizione e pratica dell’arte.
Non dico le parole che ne seguirono. Il fatto è che il nostro, essendo
già varie figure molto avanzate, non ebbe il coraggio di gittar via
tutto e far di nuovo: ma poi se ne pentì, quando, messosi a cassare le
buche cagionate al rame, ebbe mestieri d’adoperarvi più tempo di quello
che vi avrebbe messo ricominciando da capo. La Gray fu poi terminata in Roma nel 1858 e messa fra i più
belli lavori del Mercuri. In questo seppe far vedere, oltre la sua immensa abilità
nel colorire già mostrata negli altri suoi intagli, come dopo le
silvestri scene dei Mietitori e le
graziose immagini della Santa Amelia,
sapesse addentrarsi con la fantasia in un tetro carcere, nell’albergo della
morte e nei sentimenti d’un’infelice augusta, che inginocchiata innanzi al
ceppo, trema davvero, e da sotto la benda, che le cuopre gli occhi, mostra lo
smarrimento e la disperata paura. Egli però, non mai contento di
sè come succede a tutti i grandi, due volte mandò il rame a
Parigi per le pruove, e fece l’ultima in Roma, e avrebbe ancor voluto lavorarvi
sopra, se aftettato dal negoziante, non avesse al fine dovuto farsi uscir l’opera
dalle mani per l’effetto della felice pubblicazione. Ma per il ritardo di essa
fu costretto a cedere all’editore Goupil anche il disegno di sua proprietà
da lui stesso eseguito.
Desideroso di riveder presto la
patria, procurò di uscire da tutti gl’impegni presi in Francia. Scrisse
in Ispagna, e chiese ed ottenne che, per il ritratto della regina e altre cose,
a lui fosse sostituito il Calamatta. Potè annullare il contratto col
Gavard editore della Madonna d’Orleans per
la collezione del marchese Aguado: ma ciò non senza difficoltà e
sagrifizi, e persino fu costretto a dare in compenso tutte le stampe della
galleria di Versailles da lui possedute, riservandosi però la
proprietà del disegno e dell’acciaro già incominciato, la cui
incisione sperava poter continuare per conto proprio dopo aver finito la Giovanna Gray. Mandò anche a
monte una società ideata col negoziante di stampe Goupil: egli doveva
incidere la Madonna di Raffaele detta la Giardiniera,
esser pagato dell’esecuzione, e il guadagno a metà. Intanto per altre
cose da finire, e dalle quali non poteva uscirsene, lavorava indefessamente, e
così terminò anche alcuni rilievi in creta, e tra gli altri una
testina ideale da lui chiamata l’Imortalità (che poi offrì
alla famiglia Bocquet), della quale ebbe la forma in gesso tre anni dopo a
Roma. E fu allora, che dovendo anche di notte non solamente leggere, com’era
uso, ma anche disegnare e modellare per dar termine a tanti lavori
incominciati, ne ricevette sì grave offesa nell’occhio destro da far
temere della perdita della vista. La quale insino allora era stata anzi
prodigiosa che buona, tanto che egli vedeva acutamente e da lontano e da
vicino, e per incidere non usava lente, come d’ordinario si fa.
Salutato dagli
amici e dalle voci della stampa francese, era in sulle mosse, per partire. In
privato e in pubblico si rammentava il suo soggiorno in Francia così
glorioso per diciotto anni, la celebrità acquistata sopra tanti altri
illustri francesi, la sua modestia, le sue belle doti sì dell’intelletto,
sì del cuore! Si dava biasimo al Governo che non avesse con onori, con
lucri, col dargli anche la cittadinanza francese [28],
perpetuato ivi il soggiorno del grand’uomo, e a questo auguravano tante gioie a
Roma, che, sapute, potessero scemare in qualche parte agli amici di Francia il
dolore di averlo perduto [29].
Fra molte, che potrei scegliere, valgano le nobili parole che si leggono nel Costitutionnel pochi giorni dopo la
partenza dell’artista da Parigi: «Paolo Mercurí, che noi avevamo conquistato da
Roma e che avea fatto della Francia la sua seconda patria, ci ha lasciato otto
giorni fa per ricovrarsi sotto le ali di Pio IX, che l’ha nominato direttore
della sua Calcografia. A lui, è vero, non sarebbe mancato mai lavoro: l’Europa
ne lo avrebbe fornito; ma egli, come i monaci del medio evo che consacravano la
vita d’annegazione e di lavoro alla pittura dei manoscritti, avea bisogno di
calma e di riposo. Dio voglia che lo ritrovi nella città dei sette
colli! Quanto a noi salutiamo con la mano e col cuore quell’artista sì
semplice, sì modesto e insieme così grande. Invero egli ha
onorato l’ospitalità da noi ricevuta, e ha sempre corrisposto con belle
opere alla riputazione, di cui l’abbiamo coronato. A Parigi ha terminato l’incisione
della bella e sapiente raccolta dei Costumi
dei secoli XIV, XV, XVI, di cui ha eseguito i disegni in Italia pubblicandoli
poi sotto il nome del Bonnard. Qui ha inciso il delizioso rame della Sant’Amelia di Paolo Delaroche e i Mietitori del Robert, tenute per le
migliori opere che sieno uscite dal bulino. Qui ha prodotto quei capi d’opera
di delicatezza e di finito, quali sono i ritratti di Torquato Tasso e della Marchesa
di Maintenon .... A Parigi infine
ha ornato alcune gallerie e alcuni album privilegiati di amabili composizioni
disegnate o dipinte, che attestano il suo ingegno pieghevole e il suo gusto
elevato. Dicemmo composizioni dipinte: in quanto che, al pari del nostro
ammirabile Henriquel Dupont, egli ora pittore prima d’essere incisore, ed
è uno di quelli, che han fatto andare di pari passo le due passioni, le
quali si sono prestate un vicendevole soccorso .... In quale agonia quest’abile
artista lascia l’incisione in Francia, l’incisione ch’è una delle nostre
glorie nazionali, e ch’era una volta una delle più brillanti risorse
della nostra industria [30]...»
v.
Vita
domestica del Mercuri a Parigi ‑ Amicizie ‑ Roma
Onorificenze ‑
Il 1849 ‑ Il Mercuri ottiene che s’incidano
le Stanze di Ralfaele ‑ Infermità
mortale ‑ Salute in parte
ricuperata ‑
Antonio Schiassi ‑ La Scuola d’Alene.
Era
naturale che nella narrazione delle avventure artistiche del Mercuri, io
lasciassi alquanto da parte la sua vita domestica, tanto più ch’essa,
fuori di alcune consolatrici consuetudini d’amicizia, non fu, lungo questo
tratto di tempo, assai feconda. A quell’anima, tutta tenerezza ed affetto,
più volte sorrise alla mente il pensiero di una compagna alla sua vita
laboriosa e industre, e nessuno stenterà a credere che trovasse donzelle
proclivi a corrisponderlo d’amore, e che anche i soliti ansiosi di far
matrimoni gliene offrissero con visto di molto vantaggio. Egli però,
conoscendo quanto sia caro alle donne francesi il lieto soggiorno di Parigi, e
dall’altro lato avendo in cuore di tornare nella sua sospirata patria quando
gliene capitasse il destro, sfuggiva le occasioni d’ innamorarsi, e
cortesemente rifiutava i partiti. Se non che, pur avendo bisogno d’aver vicino
una persona affezionata, dopo circa dieci anni di soggiorno a Parigi, facesi
venire la sorella Eurosia, e così
ricuperando quel che gli era rimasto dell’amata famiglia, e dividendo con lei
le sue pene e le sue consolazioni, piu fermo sfidò le tempeste,
più soddisfatto accolse i trionfi dell’arte. Ho detto di alcune care amicizie
da lui contratte in quel soggiorno. Tra queste fu una delle primarie quella dei
Bocquet. Dalla famiglia Bocquet, composta di moglie, marito e una figlia, ebbe
il Mercuri sempre gran conforto, e fu addoloratissimo di doverla lasciare,
nè ora dopo tanti anni e n’è dimenticato, anzi con l’unica
superstite, cioè la figlia, ora madama Collangettes, che lo chiama suo
maestro, come fu veramente nel disegno, mantiene affettuosa corrispondenza.
Con la sorella dunque il 25 ottobre 1848 lasciò la cortese Parigi. Imbarcatisi
a Marsiglia, ebbero cattivo mare: anzi la burrasca li costrinse a rifugiarsi
nel golfo della Spezia, dove attesero miglior tempo tre giorni. Ripostasi in cammino
la nave, nel 4 di novembre, sorsero a Civitavecchia non senza pericolo di affondare
alla vista del porto. E veramente quivi un altro battello naufragò,
sebbene i passeggieri fossero salvi, meno un bambino rapito per le furiose onde
dalle mani d’un intrepido marinaio, che a rischio della sua vita volea
salvarlo. A Civitavecchia riposarono quella notte: partirono poi la sera della
domenica, e il lunedì 6 novembre giunsero a Roma, e furono accolti nella
casa del loro ainico Francesco Salviucci, ov’ ebbero cortese ospitalità.
Il Mercuri
nel giorno seguente si recò insieme col Minardi a visitare il pontefice,
che lo nominò, subito maestro d’incisione nell’Ospizio di San Michele (7
novembre 1848), e dopo tre mesi, giunti quasi al termine alcuni rinnovamenti da
lui ordinati nella Calcografia Camerale, vi prese riposata stanza[31].
Intanto parecchie Accademie si sollecitarono di nominarlo lor socio, e
più insigni artisti gli fecero dimostrazioni di stima, e tra i primi il
Toschi che gl’inviò due sue bellissime stampe (la Discesa della Croce di Daniele da Volterra e la Madonna della tenda del Correggio)
così dette d’etichetta, con parole di altissima stima. Ma
perchè un bene a lui non dovea succedere scevro di angustie e
perturbazioni, così avvennero in quel tempo i gravi torbidi dell’uccisione
di Pellegrino Rossi, della fuga del pontefice, dell’insediamento della
repubblica nel febbraio 1849. Non riuscì al Mercuri di sfuggire il richiamo
del suo nome illustre, e fu nominato a sedere nel Municipio: dove, stretto a’più
onesti, ebbe campo di praticare la sua avvedutezza e carità patria per
allontanare molti mali imminenti. Così occupato in faccende estranee all’arte
sua, avvenne che il Mazzini chiese alla Calcografia Camerale le carte geografiche
che per avventura vi fossero. Mancavanne le stampate: quindi doveva aprirsi la
stanza ov’erano depositati i rami di esse. Le tre chiavi, che aprivano la
porta, stavano in mano dei superiori, se ne poteron aver che due. D’altra parte
il Mazzini imperava l’apertura, ed era forza obbedire. Fu allora chiamato un
notaio, e con rogito regolare, in presenza di testimoni, fu dischiuso l’uscio e
tratto dalla stanza quant’era per urgenza richiesto.
Nello scorcio del 1850 il Mercuri tornò un’altra volta a una
speranza lungamente nutrita nel cuore. Egli aveva sempre pensato a una
provvisione, onde rimanesse bella e perpetua memoria delle pitture di Raffaele nelle
Stanze vaticane, da lui dette miracoli
che Dio si degnò di operare per le
mani d’un giovane eletto. Colse dunque
l’occasione che gli si porse d’una dovuta visita al papa per parlargliene coli
eloquenza ed affetto. Disse, delle fiacche incisioni del Volpato, delle sue
proposte fatte sin dalla sua dimora a Parigi e che andarono a vuoto per le
brighe del Camuccini, a cui fu più a cuore far incidere le sue opere: descrisse
il disfarsi a mano a mano delle maravigliose pitture nel volger degli anni; il
danno che ne verrebbe alle arti, a Roma, al mondo: quanta riconoscenza avrebbe
il pontefice facendo rivivere quei prodigi mezzo cancellati, riparando così
con mano pietosa l’osceno oltraggio degli uomini e dei secoli. Concluse,
perorando caldamente la diletta causa, che il papa si degnasse dar ordine per l’incisione
di tutte le prodigiose Stanze. Questi per vero, amoroso delle arti, non era
ripugnante a quest’opera: ma ancora era perplesso: se non che, le opportune
parole e le preghiere del Minardi lo spogliarono d’ogni incertezza, e non
ispaventato dalla spesa grandissima, approvò la proposta. Il Mercuri,
gioioso come doveva essere per un evento sospirato in tutta la vita, senza
indugio mise mano. Determinare le grandezze, ordinare i disegni, far venire
nove eccellenti rami da Londra, fu cosa di pochi mesi. Approvati in seguito i
disegni dalla Commissione artistica sopra le opere della Calcografia, i lavori
furon distribuiti in tal modo:
L’Incendio di Borgo:
disegnatore PAOLO GUGLIELMI: Incisore
GIUSEPPE
MARCUCCI.
Eliodoro: dis. ROCCHI:
inc. PIETRO FOLO.
Parnaso: dis. SEVERA'I'I:
inc. GIUSEPPE MARCUCCI.
Il
carcere di s. PietrO: dis. SEVERATI: inc. MANCION.
L’Attila: dis.
SEVERATI: inc. ANTONIO SCHIASSI.
Il miracolo
di Bolsena: dis. SEVERATI: inc. MICHELANGELO MARTINI.
La disputa del Sagramento: dis. SEVERATI
e CALAMATTA[32]: inc. CALAMATTA
La Scuola d’Atene: dis.
SFVERATI: inc. MERCURI[33].
Al Folo designato per l’incisione dell’Eliodoro,
essendo morto, fu sostituito il Marcucci, il quale per mezzo del Mercuri lo
cedette in seguito al Raimondi di Parma: e in cambio, al Marcucci furono dati i
quattro tondi dipinti nella volta (Poesia,
Filosofia, Teologia, Giustizia) della Stanza ov’è la Disputa del Sagramento. In luogo del
Calamatta, rapito alla nostra ammirazione mentre aveva già preparato l’intera
lastra, venne scelto Luigi Ceroni.
È, chiaro che, siccome le gravi faccende non si compiono a ore, ma a
mesi e ad anni, così queste determinazioni vennero prese a mano a mano e
in mezzo alle solite e minute traversie che avvengono dove son più
uomini ad operare. Intanto la vita domestica del Mercuri avea assunto nuova
sembianza. Dovendosi verso il 1850 maritare la sorella Eurosia a Giovanni
Orlandi, egli, che rimanea solo, pensò sul serio ad accasarsi. Quindi
volse il pensiero a una giovane, che, amica di Eurosia nel Conservatorio di San
Michele, non avea cessato di carteggiare con essa da Roma a Parigi così
palesando in quelle intime espressioni la sua bell’anima. Come avviene, il Mercuri
domandava alla sorella di quale indole fosse colei di quali costumi, e uditene
quelle lodi, che si confaceano alla sua condotta anche in difficili
circostanze, preparava l’anima inconsapevole all’idee future. Ora, tornato in
patria, ripensò a lei, e fattosi compagno alla sorella nelle visite al
Conservatorio, si confermò nella stima di già concepita. La quale
prese sembianza d’affetto, allorchè vide la giovane (che si chiamava
Anna Maria Cenci) addolorata per la morte d’un suo fratello quasi da morirne.
Risoluto allora di unire la stia vita a questa, si proferì a lei per
isposo. La offerta fu accolta con timida riconoscenza e con la preghiera di
qualche indugio per pensarvi sopra. In breve però fu celebrato il
matrimonio insieme con quello di Eurosia il 18 maggio 1850, e frutto di questo
furono prinia due figli morti bambini, e nel 20 settembre 1854 la Enrica, che
giovane ornata d’ogni virtù e valente disegnatrice, forma l’orgoglio, la
delizia, la speranza dell’illustre suo padre.
E fu dono del
cielo al Mercuri una sì amorosa compagna. Appena mandato a Parigi il
rame della Gray fu assalito da un
colpo apopletico (4 gennaio 1859). Quali cure gli prodigasse la moglie
può bene immaginarsi chi si
figuri una donna, che, oltre all’amare caldamente il marito, crede aver dal cielo il cenno di custodire e
conservare al mondo un grandissimo ingegno. E questi infatti, riconoscente,
nelle brevi memorie che per lo scopo
del presente scritto mi ha dato, si distende più sulle affettuose cure
prodigategli dalla consorte, che sulle sue stesse opere. Preferenza che fa
onore al suo cuore, ma che noi non possianio perdonargli: in quanto che, alla
storia della devozione d’una donna sublime potrà sempre supplire e l’immaginazione
d’altre donne capaci di ogni sagrifizio e la conoscenza di quanto può
nell’amore e negli affetti di famiglia cotesta bella parte del genere umano:
circa la vera essenza delle opere e il processo interno, che l’ha condotto in
esse a tanta altezza, nessun altro potrà mai supplire che lui. Noi
però, dando tributo di riconoscenza alla valorosa donna, diremo che fu
per la sua energia e operosità e svegliatezza che il Mercuri rimase in
vita e ricuperò una gran parte delle sue facoltà. Privo della
parte destra, nè l’aria di Fiumicino, nè altro poteano ridargli
il nutrirsi e il parlare. Era a dirittura sfidato dai medici. Anna Maria, preso
forza e ardire dal grave pericolo, col chinino gli unse le giunture del corpo,
e fattogliene ingollare più quantità di quella che i medici ne
aveano ingiunta, lo campò, con istupore di tutti, dalla morte vicina.
Erano però ancora e rimasero per lungo tempo le braccia e la gamba
destra assiderate. Invano si tentò la balsamica aria di Castel Gandolfo;
quando non so chi suggeriva il tuffarlo nella calda arena del mare. I dottori a
sconsigliare, a far tristi prognostici. Vinse però la volontà
tenace e la quasi divinatrice forza di Anna Maria. Preso alloggio fra Porto d’Anzio
e Nettuno in una locanda, ogni dì era scavata da un uomo a ciò
adatto una fossa nell’arena, dentro la quale per otto volte discese il Mercuri
cori un cappello di paglia sul capo e un lenzuolo disteso sopra per ripararsi
dalla sferza del sole, sudando a goccioloni, con sempre a fianco la diletta
moglie, che l’asciugava e ali dava conforto. La perigliosa pruova fu superata:
e a questa e al coraggio infusogli dalla sua compagna deve il nostro se a poco
a poco ha in parte ricuperato l’uso e la forza dei membri fulminati.
Nondimeno, poichè la sua destra avea perduto
la elasticità e la fermezza necessaria, non potè più il
Mercuri far uso del bulino resogli impossibile a maneggiare. Non può
dirsi quanto fosse il suo rammarico per dover rinunziare alle opere in parte immaginate,
in parte principiate, e specialmente all’intaglio di quella celebre Madonna d’Orleans che dovea esser la
prima lastra eseguita a proprio conto, e che certo, da quanto si può
arguire dallo stupendo disegno che si ammira nel suo Studio tuttora, sarebbe riuscita
un’incisione degna veramente del quadro di Raffaele! Ma quello che doleva
più all’artista era di non potersi
occupare nell’ incisione della Scuola
d’Atene. E n’era sommamente afflitto e scoraggiato, allorchè la generosità
di un giovane lo soccorse. Antonio Schiassi da Medicina, già premiato
nel concorso di Bologna, aveva avuto provvisione dal papa per istudiare a Parma
sotto la direzione del celebre Toschi. Quivi fu adoperato dal maestro in molte
opere; ma già era maturo artista senza ancora aver pubblicato nulla col
proprio nome. Vedendo che il Toschi a ciò non pensava, alla fine venne a
Roma, e s’allogò col Mercuri, che già bene lo conosceva. Quivi
dette aiuto al nostro nel fondo della Giovanna
Gray e fece di suo, oltre a varie altre cose, il ritratto del poeta polacco
Mickiewicz, e due ritratti del Papa
dalle fotografie, il secondo dei quali è veramente bellissimo e degno
delle lodi che ne fece e ne fa il Mercuri. Tòcco dalla dolorosa
angustia di questo, gli si offrì spontaneo d’intraprendere l’incisione
della Scuola d’Atene a metà
del prezzo, rilasciando l’altra metà a favore del buon maestro. Questi,
consigliato dalla gratitudine, accettò la proposta col patto che lo
Schiassi sotto la sua direzione incidesse il rame da finirsi entro dieci anni.
Intanto lo Schiassi, miglioratosi dal Mercuri il disegno sia in qualche figura,
sia nell’architettura e specialmente nell’effetto, si accinse (1864) nello
Studio stesso del Mercuri all’importante lavoro, pel quale i lontani posteri
della fama dell’Urbinate non con la sola voce dei secoli, ma con la vista si
renderanno compiuta ragione.
VI
Il 1870 ‑ L'Aloysio‑Juvara ‑ Il Mercuri Presidente della
Calcografia ‑ Abbandona il suo Studio e il rame della Scuola
d’Atene ‑ Feste e dolori di famiglia ‑ Di
nuovo il Fra
Giovanni da Capistrano ‑ Altre opere ‑ Onorificenze.
Non pare credibile, ma è pur
vero elle la vita tranquilla menata dal Mercuri ebbe grandissimo turbamento e
molestie poco dopo che Roma, in un abbraccio violento ma necessario, fu
congiunta alle altre, provincie italiane, e, per diritto storico riconosciuto dai
popoli, divenne capitale della Penisola. Di mente e di cuore italiano, il
nostro si gioiva di tanto avvenimento, e attendeva ai suoi lavori, quando ebbe
nuova che al Ministro della Istruzione Pubblica, Correnti, era pervenuta col
nome del Mercuri, una lettera che il Mercuri non si era mai sognato di
scrivere. Con questa egli domandava riposo e proponeva al suo posto l’incisore
Giuseppe Marcucci che sin da undici anni innanzi gli era stato messo dal
pontefice ai fianchi con l’uficio di Vicedirettore. Il Mercuri si affrettò
di far nota al Ministro la falsità di quella lettera. L’autore di essa
non fu poi conosciuto anche perchè non si proseguirono le ricerche
iniziate. A ogni modo, per desiderio espresso del Ministro, la cosa fu messa in
tacere.
Intanto l’incisore Aloysio‑Juvara fu dal Ministro chiamato da Napoli
con l’incarico straordinario di esaminare l’andamento, l’ordine e l’amministrazione
della Calcografia. Il che fattosi dall’Aloysio insieme col Mercuri, fu da prima
posto in disponibi1itá il Marcucci e
messo al suo luogo lo stesso Aloysio col titolo di Condirettore e maestro della
scuola d’incisione da istituirsi nella Calcografia, e poi con decreto reale
del 17 marzo 1872 fu dato nuovo assetto alla superiore direzione di essa. A
tale scopo il Mercuri ne venne rieletto Direttore col diritto d’alloggio nello
stabilimento come per lo innanzi, e l’Aloysio, col medesimo diritto d’alloggio,
ne fu confermato Condirettore e maestro d’incisione. L’Aloysio dopo ciò
con notevoli e necessari cambiamenti migliorò l’andamento economico
della Calcografia, la quale ne avea veramente bisogno.
Tutte queste cose furono fatte di
pieno accordo tra l’Aloysio e il Mercuri: anzi questi, interpellato sin da
principio dal Ministro, se avesse avuto piacere che l’Aloysio gli fosse
compagno, avea risposto di esserne contentissimo, perchè verso di quello
nutriva sincera amicizia da circa trent’anni.
Nè fece difetto per lungo tempo quest’armonia tra il Mercuri e l’Aloysio,
e furono ambedue ricolmi di onorificenze. Se non che il carattere assai impressionabile
dell’Aloysio offrì il destro ai maligni, che godono ai tormenti degli
uomini d’ingegno giunti in alto, di svegliare in lui delle sospettose
diffidenze. Vi fu persino chi tentò di seminar zizzania tra lui e il suo
amico Mercuri: ma le reciproche leali spiegazioni intervenute spuntarono le
armi che si adoperavano per intorbidare la scambievole fiducia, per rompere l’antica
amicizia[34]. Ad onta di ciò l’Aloysio
sempre più assalito dalle arti perfide, non potè dominare sino
all’ultimo se stesso e la sua indole accessibile ad ogni insidiosa parola.
Credè a immaginarî pericoli che
gli si diceano imminenti: in tutto ed in tutti vedeva frodi e tradimenti: tanto
che nel 29 maggio del 1875 si procurò, con la sua mano stessa, la miseranda
fine che fece fremere d’orrore e piangere di compassione tutta Roma.
Non bastando alla famiglia Mercuri il dolore di questa catastrofe, le venne
sopra, con apparenza d’onore, un’altra amarezza. Fu nominato Direttore della
Calcografia il Marcucci (6 settembre 1875), e Presidente di essa il Mercuri.
Il quale però, mentre guadagnava un titolo suonante, perdeva il
godimento, che avea da ventisette anni del diritto di alloggio, non compensato
da una congrua indennità che gli si promise allora e che poi nel vero fu
minore di quanto sarebbe stato più giusto.
Nel 20 ottobre 1875 egli dovè abbandonare, nella sua vecchiezza, lo
Studio fattosi acconciare per uso di un vero artista, insieme con la casa
abitata per tanti anni, nella quale avea sperato di morire, e prese alloggio nel
palazzo Massimo alle Terme Diocleziane. Quivi, poichè non avea
più da occuparsi nelle faccende della Calcogratia, rivolse ogni sua cura
alla direzione del rame della Scuola d’Atene
e cercò di sollecitarne l’opera alquanto ritardata. Ma si opposero a’suoi
desiderî la mal ferma salute dello Schiassi che per questo andò nel
lavoro sempre più a rilento, e la prematura morte dello Schiassi
medesimo avvenuta il 28 febraio 1872. Fu doppiamente dolorosa all’animo del Mercuri
tal morte: perdeva il suo amato scuolaro ed amico, e la speranza di più
vedere compito sotto i suoi occhi l’intaglio della grand’opera di Raffaele per
tanti anni, con tanta ansia da lui desiderato. In conseguenza di sì
tristo caso, egli restituì spontaneamente al Ministero la lastra incominciata,
onde la Giunta delle Belle arti ne affidò la continuazione al valente
Ceroni. E anche per l’Attila, non
potuto ultimare dallo Schiassi, fu a questo sostituito Lucio Lelli.
Una festa di famiglia venne a rallegrare alquanto la vita del Mercuri travagliata
da sì fatte angustie. La sua amatissima figlia Enrichetta nel 30 maggio
1877 contrasse felice matrimonio con Teodoro Radulescu rumano (di Bucarest),
còlto e agiato giovane, che nell’Università romana avea compiuto
con grande onore i suoi studî di giurisprudenza. Ma nuovo e gran dolore raggiunse
all’artista e alla sua lieta famiglia, quando atroci sofferenze cagionatele da
malattia di cuore, Maria, la moglie del Mercuri, la salvatrice della preziosa
esistenza del marito, venne a morte il 27 luglio 1878, nell’anno
sessantesimoterzo della sua età.
Ora il Mercuri, profondamente afflitto per la perdita ma prendendo animo
dall’amore della sua figlia e del suo genero e dallo zelo che mantiene sempre vivissimo
per l’arte, attende con cura all’insegnamento dell’incisione da lui dato
tuttorra nell’Ospizio di San Michele, prende parte alle deliberazioni della
Giunta superiore delle Belle arti per ciò che riguarda la Calcografia, e
frequenta non di rado le adunanze dell’Accademia di San Luca. Nè lascia,
non ostante l’impedimento del braccio cagionatogli dalla paralisi, di operare
per quanto può. Sin dal 1873, benchè con grandissima lentezza e
con molto sforzo, avea terminato di dipingere a olio il Ritratto di sua figlia, di grandezza naturale, e anche in quel
tempo al suo venerando amico Salvatore
Betti fece il ritratto in un disegnetto da lui donato all’editore Guidicini
di Bologna, il quale dovrebbe farlo incidere per pubblicarlo in un Albo d’illustri
contemporanei. Nel 1875 poi finì di ritoccare quella sua antica
incisione del Fra Giovanni da Capistrano, le cui stampe erano diventate
già da molto tempo rarissime per il pessimo stato in cui era ridotto il
rame. Questo rame fu ritrovato nel convento di San Pietro in Montorio e
acquistato dal Vicegerente di Roma monsignore Angelini, a’cui preghi il Mercuri
operò il ritocco. E fu bene: chè non so a quali altri migliori
mani si sarebbe potuto affidare quella lastrina, che, resa quasi inservibile,
ebbe dal suo autore per le esperte e pazienti cure adoperatevi una nuova vita[35].
E adesso il Mercuri sta dipingendo a olio, sopra rame dorato, una piccola Santa Cecilia in mezza figura già
da lui ideata è gran tempo, allo scopo di offrirla ai suoi cari amici
Bocquet.
Così il Mercuri, onorato[36],
amato, vive una vita, per quanto è
dato in questa terra, tranquilla e serena. Ebbe ed ha coi grandi artisti,
anzi con i più insigni uomini del tempo tenera amicizia e debito culto.
Basti nominare Bartolini, Pistrucci, Cornelius, Overbeck, Tenerani, Finelli, Wolff, Gérard, Ingres,
Schnetz, Delaroche, Orazio Vernet, Calamatta, Toschi, Salvatore Betti, Lehmann,
Minardi, Mai, Pietro Giannone, Henriquel Dupont, Feuillet de Conches, Raoul
Rochette, Rossini, Duprè, Aleardi ecc.
Possa la ricuperata salute non venirgli meno nella sua avanzata età e
serbarlo all’arte, alla patria, per quanto è dato ai mortali, assai
lungamente!
[3] Il signor Raffaello Ojetti nel suo libro: Luigi Calamalla incisore: Roma (Tipografia romana) 1874 a pag. 28
nota 3, mi rimprovera, con molta gentilezza però, che in questo passo io
abbia parlato poco bene dell’Ospizio circa alla gran moltitudine degli artisti
ch’esso creava. Ma rinvengo
le opinioni del Calamatta simili alle mie, quando nel 1o aprile 1826
scriveva al Mercuri (v. Documenti, n. V) <<…Tutte le osservazioni, che
fai sopra l’Ospizio, mi pajono giustissime. E poi, se anche riuscissero bravi,
quando escono di là come vivono in un paese ove il Governo non dà
due soldi di lavoro? Non si avrebbero da mettere alle belle arti che quelli che
hanno da poter vivere. Se tu che sei uscito di là solo e con tanto
talento, sei obbligato di fare di tutto per vivere, che cosa faranno quei
poveri disgraziati, che usciranno di là a truppe?
È vero che quasi tutti quelli, che escono di là, fanno il
soldato o il servitore. Allora
è lo stesso uscire dal Lanificio
o dallo Studio…...>>
[4] V.
Documenti n. I.
[5] L’iscrizione sotto la stampa è Ite ad Joseph e Paolo Mercuri incise
nell’O.A.
[6] Questi due quadretti, posseduti in seguito dal
cardinal Tosti, oggi trovansi nelle mani del suo erede Alessandro Ceccarini. –
In una lettera del cardinal Tosti scritta al Mercuri nel tempo che la Sant’ Amelia avea sparso tanto grido, si
legge: «... La Sant’ Amelia ha fatto qui quel colpo che
dovea fare. Ho l’amarezza di doverle dire che il buon curato azzini è
passato in cielo. Lascia di sè la dolcissima memoria e l’esempio. Ho
ottenuto dalla sua eredità i due quadri del giovane Mercuri S. Luigi e S. Filippo…La ringrazio senza
fine delle copie inviatemi. Pagherei qualunque somma il suo ramino precedente (I Mielitori). Mi rimane però la
obbligazione del primo, che resterà sempre per memoria di Lei
all’Ospizio».
[7] Questo disegno donato ai Salviucci, fu più tardi (1838) inciso da Pietro Mancion, grande amico del Mercuri. Il Mancion in una lettera del 18 Iuglio 1838 narra al Mercuri che, avuto in pensiero d’incider quel disegnio, se lo fece imprestare dai Salviucci, e che ne parlò al Tosti, allora Tesoriere, il quale assentì. Trovato però il detto disegno alquanto guasto, rimandandolo al mercuri, lo pregò di ritoccarlo : il che fu dal Mercuri eseguito. Prima del mancion, il Banzo lo avea già inciso per commissione del Salviucci.
[8] Emilio Perrin nella Paix, 30 août 1837.
[9]La leggenda al di sotto della stampa
è questa : P. Joannes a Capistrano
romanx reformalx provincix a Leone PP. XII anno 1824 sacro
Pentecostes die minister generatis reunciatus. E in piccole lettere : P. Mercuri dal viro, 1824
[10] 1825 . Avrebbero dato scudi settanta
mensili, vitto e allogio. Si dovsssea litografare tutta la galleria.
[11]Del 14 decembre 1825 è l’attestato
di lode fatto da Teodoro Morini rettore dell’Ospizio.
[12] In via di sant’Isidoro, n. 12, di faccia
all’orto dei Cappuccini.
[13] V. documenti n. X.
[14] Sono notevoli alcuni passi d’una lettera
di Paolo scitta il 16 marzo 1830 al Minardi. «… Rocco De Santis è
l’uccisore del suo patrigno Vincenzo Mercuri… La ferita nessuno, per quanto sia
credulo e insensato, la può credere naturale, mentre colla sola caduta
è impossibile di stritolarsi l’osso della fronte, dell’occipite, come
risulta dalla sezione e dal teschio, che sfortunatamente conservo presso di me,
fatto preparare dal sig. Vincenzo Sartori, chirurgo sostituto della
Consolazione… Ah povero padre mio! Se fosse stato ucciso qualunque più
infimo animale ne avrebbero fatto più caso! Ch’io faccia l’elogio di mio
padre forse non sarei creduto; ma tutti quelli che l’hanno conosciuto, possono
farlo per me… Non troverò più quiete, giacchè il mio
spirito è oppresso in modo, che solo da morte attendo riposo». – Nella
prima edizione della presente Vita era scritto che il padre del Mercuri fu
ferito nell’l 1 novembre. S’è mutata questa data nel 4 novembre e
s’è accertata la morte di lui avvenuta il 16 novembre per via delle Fede di morte che trovasi nel libro
mortuario dell’Arcispedale di Santa Maria della Consolazione.
III.
Il Mercuri a Parigi – I Costumi
dei bassi tempi – I Mielitori-
Causa intentatagli dal Robert - Vittoria – Transazione.
Fu ventura che intorno a quel tempo (20 marzo 1830) il
Mercuri
dovesse prender la via di Parigi a continuare l’opera dei Costumi e a sorvegliarne la stampa.
Della quale opera sarà bene ch’io dica subito le vicende per non
tornarvi, nel corso della narrazione, più sopra. Il Bonnard dunque
l’aveva intrapresa a imitazione di quella pubblicata da Ricardo Gough sui monumenti
sepolcrali della Gran Brettagna1. Una
edizione italiana se ne faceva a Roma col testo del Bonnard: ma non comparve
quivi che il solo primo volume con cento tavole. L’altra, in francese, usciva
in luce a Parigi, ed anche questa fu
soggetta a varie vicende. Imperocchè, scoppiato il rivolgimento di
luglio e gli associati dispersi, il Bonnard vendesse l’opera a Paolo Grand
avvocato, e questi a sua volta la rivendesse all’editore di stampe Goupil, il
quale finalmente la pubblicò tutta quanta nel 18452.
Questi costumi sono incisi all’acqua forte con poca
macchia. Alcune vedute qua e là son di mano del Bonnard. È in
essi sottilmente intesa la maniera dei trecentisti e quattrocentisti, da cui
son tratti. Qualche volta, l’artista ha voluto animare le figure dell’istorie e
delle tombe: nè per certo a mo’d’esempio, nel musaico di santa Sabina il
domenicano con la croce alzata in atto di parlare, mostra tanto fuoco e tanta
vivacità3. Fra i molti
bellissimi, a me sembrano toccar l’apice l’arciere del milletrecento, il doge
Michele Steno, il giovane veneziano, i giudici del torneo4 e quasi tutti i ritratti degli illustri o
famosi come Federico III, Can della Scala, Vittor Pisani, Gastone di Foix,
Giordano Orsini e Massimiliano imperatore ambedue a cavallo, Federico II, il
Petrarca, Sisto IV ed altri5. Insomma,
lasciando l’esecuzione, che non poteva esser migliore considerato lo scopo a
cui tendeva l’opera; tu vedi in codesti due belli volumi risuscitato e
riprodotto il medio evo, di cui invano cercheresti traccia fuori d’Italia, sola
còlta e civile in quei secoli, nel resto d’Europa sì oscuri.
Nelle storie dei santi e dei martiri rappresentate dai nostri primi scultori e
pittori, qua e là improvvisamente lampeggiano e vivono le immagini della
vita civile: dappoichè, non ricercando gli artefici i costumi delle
diverse epoche e delle varie genti, ricopiavano quel che vedevano intorno,
salvo che lasciavano ai sacri personaggi il tipo ieratico, venerato e
consacrato dalla tradizione. Al volto imberbe e virile del giovane fiorentino,
all’atto energico e alla man destra bassa coll’indice teso, te lo rappresenti
in quel punto che lasciava un focoso discorso, e ben lo riconosci per un di
coloro, che indomiti nell’amore o nell’odio, o volean distruggere ilnido
natìo,o, come Farinata, lo difendeano a viso aperto6. Tu scorgi lo spirito del fantaccino
italiano in quel giovane svelto, con la lancia, i capelli investiti dal vento.
Ben furono di tal tempra gagliarda e valorosa coloro, che fecer liberi i Comuni
e che furon per certo con amarezza desiderati, quando, poste alla difesa della
patria le milizie di ventura, i tiranni nell’ozio e nell’infingardaggine dei
cittadini tramarono e conseguirono la rovina della libertà7. Vedi tornei, tribunali, guerrieri,
commercianti, ebrei, imperatori, armature, toghe, eleganti vesti di
gentildonne, austeri manti di cenobiti, soldati devoti, frati battaglieri, quel
misto di religione, di valore, di fasto quasi asiatico tra fazione acerbe e
incremento civile, di cui l’Italia die’sola esempio in quell’età, scontandone
adesso ancora e le glorie ei delitti.
Il Mercuri intanto, adoperato dal Bonnard e poi dal
Grand in sì vasta opera, eccetto pochi denari, che gli bastarono appena
per campare, non ne trasse che vane promesse ed esigue speranze di quadri da
fare e neppure ordinatigli. Quindi vivea povera vita, confortata in parte dalla
calda amicizia del Calamatta, dal quale non si divise se non quando questi
pensò di trovarsi felice (e nol fu) sposandosi alla figlia dell’illustre
francese Raoul Rochette. Nè per quanto il nostro cercasse di
procacciarsi lavori, sia in pittura sia in disegno, ciò gli veniva
fatto. Avea continuo ostacolo all’altrui fiducia dal non poter mostrare altro
bel frutto delle sue fatiche che Costumi
a mezza macchia, alcuni disegni e certe incisioni a punta secca, ossia tre
tavole di Antiche terrecotte figurate
per un’opera del conte Pourtales (1831). E lunga pezza avrebbe continuato in
tale oscurità, ove non gli si fosse pòrta un’occasione, che ad
altri forse, ma non a lui, sarebbe sembrata di poco momento. In questo appunto
differisce il grande dal mediocre ingegno. Date a un uomo di poco levatura una
bellissima occasione da segnalarsi: egli non ne trarrà che poco o niun
frutto. A una testa capace, a una mano esperta concedete un nonnulla quasi a
scherno, a ludibrio: saprà egli di ciò, ch’era al di sotto del
suo potere, anche di quello, che non poteva recargli alcuna nominanza, far lo
strumento, che provi il suo alto sapere e gitti salde fondamenta alla sua fama
perene. Il Mercuri ebbe invito dal Ricourt di eseguire un contorno in
litografia per esser pubblicato nel Giornale L’Artista. L’originale era un quadro già messo nell’Esposizione, il quale rappresentava i Mietitori nelle maremme romane, dipinto
da Leopoldo Robert. L’opera era molto encomiata allora e anche adesso non poco:
ma per certo il bulino del Mercuri la reste sì celebre, che il
descriverla ora parrebbe pedanteria non altrimenti che narrare a parte a parte
la disposizione e gli atteggiamenti delle figure nell’immortale Scuola di Atene. Basti dire che nella
curiosità, incui erano allora i viaggiatori e gli artisti stranieri dei
costumi della campagna romana e dei paesi al mezzogiorno di Roma, eccitata
specialmente dai popolari disegni di Bartolomeo Pinelli, lo svizzero Robert seppe
più d’ogni altro cogliere il vero e l’eletto dipingendo la scena dei Mietitori con grazia greca. Fu egli, che
dando riputazione a sì fatta specie di argomenti, generò
imitatori, che non l’han mai neppure eguagliato, massime perchè i
prisenti, anzichè ricorrere al vero, si appagano di quel corrotto e
mascherato stuolo, che sulle scale della Trinità de Monti simula
teatralmente l’innocenza o la fierezza de’luoghi nativi8.
Paolo
disegnò dunque da prima codesto quadro a mezza macchia: ma quando
fu per inciderlo, domandò all’editore licenza di far ciò sul rame
piuttosto che sulla pietra litografica: in tal guisa le finezze dell’opera
avrebbero avuto miglior modo di esser rilevate. Il Ricourt acconsentì
molto volentieri. Cominciata l’incisione, l’artista per sollevarsi dalla noia
di eseguir sempre contorni, pensò di finirla a tutto effeto, e fatto
anche di ciò parola al Ricourt, alacremente avanzò nella detta
maniera il suo lavoro. Visto però di aver mestieri un’altra volta
dell’originale appunto per non falsarlo, pensava di finire il disegno col
quadro dinnanzi agli occhi. Questo per avventura era fuor di Parigi; tanto che
egli si sforzò di richiamarselo a mente ne’suoi particolari, e
cercò, meglio che potea, nella copia ravvicinarsegli. In quella
tornò a Parigi il Robert già dal Mercuri conosciuto a Roma, e gli
fece visita allo Studio anche per vedere l’incisione incominciata. Il nostro
colse questa occazione per chiedere al
Robert se non il quadro, che non era più in suo potere, al meno qualche
bozzetto o ricordo di esso. Il Robert gliene offerse una copia in disegno, a
suo dire, molto esatta e già compiuta dal suo stesso fratello.
Perchò il Mercuri fu presto a recarsi nello Studio dell’Ulrich, ove il
Robert aveva agio a’suoi lavori nel poco tempo che dovea trattenersi a Parigi,
e quivi, in vece di finire il suo disegno come s’avea prefisso, ritoccò
una pruova già stampata del rame per meglio rappresentare il vigore e il
carattere dell’opera, e così più sollecitamente compì la
bizogna. Quindi ebbe termine quell’ incisione, che dissimulando il colore poco
commendevole del quadro, lo fece apparire più bello. Originale, puro,
grazioso e robusto nello stesso tempo quivi apparve il Mercuri; e adoperando
l’immaginazione (la quale non è inutile come si crede, a quelli
specialmente, che di tal professione fanno un’arte vera), e conciliando con
immenso ingegno la regolarità
materiale con la scioltezza e l’inatteso tòcco artistico, egli impresse
nel suo lavoro una vivacità i una naturalezza ammirabili. Poichè
dal Roberto fu veduto i approvato, il Mercuri lo consegnò subito
all’editore Ricourt e n’ebbe lo stesso misero prezzo, che già s’era
statuito per il solo contorno, ossia (fa pena il dirlo!) trecento franchi. Undici mesi di fatiche in un’opera di tanto grido, per
sì vile mercede!
Parea che l’artista avesse il diritto di godersi in pace
una gloria acquistata con tanto sagrifizio. Ma non fu così. Qualche
giorno dopo la consegna egli fu citato in giudizio, insieme col
Ricourt, innanzi al tribunale del dipartimento della Senna, come contraffattore
dell’opera, eseguita cioè senza il consenso dell’autore. Chi l’accusava
era, lo stesso Robert. Se rimanesse il Mercuri come sfolgorato da tanta
nequizia, chiunque ha cuore sel pensi. Scrisse subito al Robert scongiurandolo
a non portargli sì grave danno: gli richiamava alla niente
cìò ch’era poco prima intervenuto fra loro e non avrebbe dovuto
dimenticarsi da una retta coscienza: da ultimo, mostrando il suo animo troppo
mite, si proferiva di rifare pel Ricourt il semplice contorno in litografia,
purchè gli si desse facoltà di pubblicare il rame fuori di
Francìa. Il Robert non sì degnò rispondergli. Era chiaro
che colui voleva in stia balìa il rame senza sborsar moneta. Assalito sì
ingiustamente, fuori d’ogni umana credenza, da un artista di quella riputazione,
non potè resistere alla forza del dolore l’animo delicato e sensibile
del nostro. Il pensiero di dover perdere il frutto de’suoi sudori e per
soprammercato con nota d’infamia in terra straniera, gli alterò la
salute, in pochi giorni gli nudò
dei capelli la fronte!
Alla sozza calunnia il solito codazzo
d’ingiurie. La plebe degli oziosi e dei giornalisti a vibrare scède (3
frizzanti motti contro lo sconosciuto oltramontano che osava vestirsi, con
furto disonesto, delle penne altrui. E vi furono ingiurie sanguinose all’Italia:
ma dov'è il popolo che nelle sue ire anche giuste contro un uomo
qualunque, non confonda con esso anche la sua patria? Ancora il mondo non
è giunto, nemmeno in Europa, a venerare la virtù o a maledire il
vizio per se stessi e non come bello o tristo privilegio d'una sola nazione. L’Italia
intanto non patìa pena per sì fatte ingiurie; bensì se ne
crucciava Paolo, tormentato per un anno intero innanzi ai tribunali e all’opinione
pubblica tutta vòlta a favore del Robert. Non così però la
pensavano gli uomini di gran senno e gli amici intimi del Mercuri. Questi, ben
conoscendo pari al suo valore la rettitudine e l’onestà, con la loro
voce, sebbene poco udita in mezzo all’indecente schiamazzo, redimevano in
qualche parte l’onta recata al nome francese dagli avari, dai maligni, dagl’invidiosi.
Tra i benevoli era il Bonnard: una lettera del quale io voglio tradurre e
riportare qui intiera, come quella che onora lui, il Mercurì, e
rappresenta l’opinione del pubblico dabbene: « Ho letto testè in mio
dei fogli della Gazzetta dei tribunali un
articolo, che m’ha dato vivo dolore. È mai possibile che a premio di
tanti sagrifizî, di pene, di fatiche, voi siate fatto segno a ingiustissime
persecuzioni? Non conosce dunque nessun limite la cupidigia di coloro, che han
cercato abusare del vostro stato per arricchirsi col frutto delle vostre fatiche?
Perchè io non ho tanta potenza da far udire la mia voce gridando il
nobile disinteresse, di cui m’avete già dato costanti prove?
Perchè io non posso con una sola parola far conoscere a quelli che non
hanno nè il tempo, nè le occasioni da potervi stimare, tutte le
privazioni, a cui vi siete assoggettato, per porgermi aiuto nella produzione d’un’opera,
la cui miglior parte è tutto merito vostro? Allora sì che sarebbe
noto agli altri come a me, di che nobili qualità, di quanta
lealtà e onoratezza sia ricca la vostra bell’anima! Gli svergognati
arrossirebbero della vile persecuzione mossa contro di voi, e il vostro amico
non avrebbe da gemere con voi di questo nuovo esempio di ostacoli e di vili maneggi,
onde si vuole arrestare il volo d’un ingegno, che ci apporterebbe gloria quando
acquistasse la cittadinanza francese. Io sono troppo sicuro della severa imparzialità,
dei magistrati: perciò non dubito punto che voi non siate per vincer la
lite: intanto non ho potuto resistere al bisogno di manifestarvi il dolore del
mio animo per l’abominevole ingiuria a voi fatta. Attendo dunque con grande
impazienza la novella del vostro trionfo, e vi ripeto l’espressione della
inviolabile amicizia che ci lega e legherà per sempre »[14].
Il Bonnard noti
s’ingannò, ma il trionfo venne preceduto da lunghi e dolorosi fastidî. Il
Mercuri, povero com’era, penò molto a rinvenire un avvocato per la sua
difesa, e finalmente s’abbattè nel Boinvilliers, il quale s’appagò
di soli trecento franchi a premio del suo patrocinio. E forse non sapea che
quei trecento franchi eran quanto avea potuto raccogliere da un’opera
immortale il suo bersagliato cliente! In breve, dopo che fu provato al
tribunale il consenso del Robert suggellato dalla visita del Mercuri allo
Studio dell’ Ulrich, il quale facea del tutto chiara testimonianza; la difesa
sconfisse ogni contrario sermone ed ebbe sentenza in favore del nostro[14].
Come atroce era stato da prima il dolore del biasimo, così fu refrigerante
e balsamica al cuore del grande artista la lode e, direi, l’ovazione avuta in
appresso. Il Thevenin, già due volte direttore dell’Accademia di Francia
in Roma e, allora custode delle stampe nella biblioteca Reale, fece del Mercuri
larghissime lodi innanzi allo stesso tribunale, e similmente il Calamatta, le
cui parole suonarono robuste e calde, quali in somma poteano proferirsi da un
uomo, che ben sapeva non esser superiore al suo amico che nella profonda
convinzione di meritar la fama e anche la ricchezza, e di volerle risolutamente
con le sue opere conseguire. Seguirono i giornali, le voci degli onesti e dei
buoni, e in fine l’immensa turba degl’indifferenti, pronti a gittarsi
là dove si mostri favorevole la Fortuna, e se vi è anche il
merito, tanto meglio. Ma più d’ogni altra cosa vinse i Francesi la
stampa pubblicata, onde fu detto il Mercuri una delle glorie vere dell’incisione
moderna. E così un’altra volta fu dimostrato che il miglior mezzo di vincere
gli avversarî, è quello di opporre alle vane ciarle l’opera indefessa.
Qualcuno
domanderà come sorgesse il Thevenin a lodare il Mercuri nel fervore
della lite. Egli è che il giudizio fu reso in prima istanza, e che il
tribunale, assolvendo i rei convenuti perchè di buona fede, accolse l’offerta
del Ricourt di depositare il rame presso una terza persona. Questa fu eletta
nella persona del Thevenin, il quale avrà còlto allora il destro
di parlare del Mercuri. Certamente poi la sentenza sarebbe stata confermata in
appello con doppio onore dei perseguitati. Se non che nel 26 marzo 1833 intervenne
una transazione tra il Ricourt, il Mercuri e Antonio Desplan procuratore del
Robert dimorante in Isvizzera, con la quale il Robert cedeva la proprietà
del rame al Ricourt in cambio di mille franchi e cinquanta esemplari delle
pruove tirate, e il Mercuri faceva la stessa cessione togliendo in pa gamento
milleduecento franchi e dieci dei detti esemplari[14].
E così aveva termine il vergognoso litigio[14]
Quantunque di questa incisione fosse tirato un gran numero di copie, essa
è divenuta una rarità, che manca sovente nei più ricchi
gabinetti. Il peggio si è, ch’essendosi logorato il rame, esso fu
ritoccato da chi non si vergognò, dopo la brutta opera, di lasciarvi a basso
la sottoscrizione del Mercuri: e queste pruove, in luogo delle prime, si
trovano nelle botteghe dei mercanti più spesso[14]
[15] Emilio Perrin, nel giornale La Paix, Paris, 30 août.
[16] Le National, Paris, 22 septembre 1838.
[17] Il Mercuri in alcune note fatte alla prima edizione di questo libro ha
detto questa notizia non esser forse esatta. Egli crede che l’Ingres stesso
facesse disegnare ed incidere al Calamatta il Voto di Luigi XIII sebbene venisse pubblicata la stampa per cura
del Rittner e Goupil.
[18] Débats, 27 février 1838.
[19] Le Temps, Paris,
29 mai 1838.
[20] La Paix, Paris, 30 août 1837. ‑ Le National, 22 septembre 1838. ‑
Le Bon sens, 29 decembre
1837, ecc. ecc.
[21] «L'espressione usata dall’amico Calamatta riguardo alla vostra bella
incisione non può essere nè più giusta, nè
più vera, poichè dandomi un cenno della vostra opera, mi scrisse
che il vostro lavoro era un prodigio. In conseguenza non so che aggiungere,
perchè quando si dice un prodigio, non si può dir di più.
Onde in compenso tanto della stampa, che m’avete favorito, come del dolce nome,
che mi date di maestro, vi do mille baci, non sapendo come compensare il
piacere di sentire le vostre lodi.... » ‑ E l’incisore Giuseppe Marcucci
gli scriveva (29 nov. 1837) «Jeri
mattina dal Tesoriere vidi la tua stampa di Sant’Amelia. Io non ti so dire
l’effetto che mi fece, giacchè m’intontì affatto, benchè
Calamatta l’avesse costì prevenuto con la giusta espressione di
superiore ad ogni aspettazione: pure non era possibile figurarsi una cosa
divina e ti parlo senza esagerazione, giacchè chi la vede, resta
sbalordito.... Sentirai lo sbalordimento di Tordwalsen quando ricevette la tua
stampa...» In un’altra lettera (Roma, 11 febbraro 1834) il Marchetti esprimeva
la gioia delle glorie conseguite dai due suoi scolari. « ... In somma sono
fanatico nel sentire e vedere che due Romani, figli dell’Ospizio e miei
scolari, giacchè così vi volete chiamare, si facciano tanto onore
in una Parigi, poichè l’amore della patria è innato a noi tutti
».
Lettera da Roma, 2 dicembre 1837.
[22] «La Pia, che fa parte della preziosa collezione dei quadri del conte
d’Espagnac e alcuni ritratti sono le pitture, che si conoscono del Mercuri a
Parigi. Per esse ci dogliamo che l’artista non abbia diviso il tempo fra le due
arti, in cui si è distinto egualmente. Alcuni amatori possiedono certe
sue composizioni a penna e a matita, le quali si ammirano specialmente per
l’altezza dei pensiero ». (Débats, 6 novembre 1848).
[23] Una nota segnata dal Mercuri dice che il ritratto del Tasso di Scipione
Gaetano è posseduto dal principe Poniatowski.
[24] Per la storia della censura pontificia sarà buono sapere che a Roma,
negli Stati romani, non si poteano più ristampare i classici,
specialmente sotto il pontificato di Gregorio XVI. Il Salviucci, se volea
ristampare la Gerusalemme, avrebbe
dovuto darla rnozza dalle forbici d’un frate ignorante.
[25] Nel 1862 furono tutti pubblicati: Les
émaux de Petitot du Musée impérial du Louvre; portraits de personnages
historiques et de femmes célébres du siècle de Louis XV, gravés au burin
par M. Louis Ceroni. Paris, B. Blaisot, libraire éditeur, m. d’estampes.
Vedi di Luigi Ceroni una accurata notizia, scritta da Francesco Cerroti sul Buonarroti di B. Gasparoni, continuato
per cura di E. Narducci. Roma, 1870. (Serie II, vol. V, febbraro).
[26] Il Calamatta ne donò il rame alla moglie del Mercuri quando questi
era gravemente infermo (1860).
[27] L’invito di Roma con la nomina porta la data del 5 ottobre 1847. ‑
Il permesso di restare a Parigi per dar ordine alle sue faccende è del
28 marzo 1848. Si veggano nei Documenti ni XXXI, LI, LIX, LXIII, LXIV, LXVI, LXIX le interessanti
lettere del Minardi a questo proposito.
[28] Così fa scritto allorchè egli ebbe l’Ordine di San Gregorio:
«C’è giunta notizia che il Papa abbia mandato al signor Mercuri il
diploma e le insegne dell’Ordine pontificio di San Gregorio. Noi riceviamo
questa nuova con vivo piacere: tanto più
che sì fatta decorazione è di quelle che non si fanno scadere di
pregio col prodigarle, e non è accordata dalla Santa sede che al merito
incontrastato. Gli artisti francesi, che onorano nel Mercuri la doppia
qualifica di pittore e d’incisore, lo vedranno con piacere così
distintamente onorato. Dal tempo, in cui s’ammirano in Francia le
incisioni dei Mietitori e della Santa Amelia, il Governo francese, che si dice incoraggiatore delle
belle arti, non avrebbe dovuto aspettare che una sì giusta ricompensa
fosse data al Mercuri da’suoi compatriotti. Avrebbe dovuto pensare che se quei due
piccoli capi d’opera hanno dato al grande artista il diritto di cittadinanza,
v’era anche un altro mezzo per farlo a dirittura francese (naturaliser) ». (Le Bon sens, Paris, 28 juillet 1838).
[29] Débats, 6 novembre 1848.
[31] 1 Si vegga della Calcografia Camerale
ora Regia Calcografia riassunta
la storia nello scritto intitolato Cenno
storico premesso da Tommaso Aloysio‑Juvara al Catalogo generale dei rami incisi al bulino e all’acquaforte posseduti
dalla Regia Calcografia di Roma ecc. Roma, Regia Tipografia, 1874.
[32] Fu incominciata dal Severati, e finita dal
Calamatta. A tal proposito non è da tacere quello che disse Raffaello
Ojetti nel suo libro: Luigi Calamatta incisore
cit. a pag. 29. «... La Commissione artistica, a cui era dato incarico
allogare i lavori, fatta osservazione alla sua già avanzata età,
in sulle prinie si mostrò incerta e irresoluta nel comettergli l’incisione
della Disputa del Sagramento: solo
dietro pressanti premure del Mercuri e di altro suo amico ed ammiratore si
accordò che ne ultimasse il disegno già per metà eseguito
dal Severati. Accettò questo il Calamatta, e in breve tempo compitolo, fece
meravigliati e stupiti i Commissari per la perfezione e bellezza del lavoro
della sua matita, e persuasili che se era tarda la sua età, però
giovane e forte ancora mantenevasi al suo sapere la mano obbediente. Concordi
tutti ebbeli, e non tardarono ad affidargli l’incisione. Recatosi in Napoli pochi
anni prima della sua morte, il Calamatta stesso, discorrendo di questo lavoro
ottenuto col suo affezionato allievo Lucio Lelli a cui fece visita, si
mostrò persuaso della perplessità in cui eransi mostrati in sul bel primo i membri
della Commissione artistica della Calcografia romana nel commettergli il detto
rame, esprimendosi: essergli stato dato
dieci anni piu tardi. Alludeva all’imponente e lungo lavoro intrapreso, nel
quale prima sarebbegli mancata la vita, che portarlo a felice compimentoDa
principio il Mercuri s’era proposto di eseguire egli stesso il disegno della Scuola d’Atene e anche quello della Disputa del Sagramento».
[33] Da principio il Mercuri s’era proposto di eseguire egli stesso il disegno
della Scuola d’Atene e anche quello
della Disputa del Sagramento.
[34] L’Aloysio così scriveva al Mercuri, il 3 febbraro 1875, poco prima
della sua morte: «....... Mi sono
convinto
maggiormente da questi due gran fatti, come per tanti altri schifosissimi, che
urtano la molla più delicata del cuore degli uomini dabbene, che il
movente di questi mezzi impuri, mira (come voi medesimo diceste), mira ad
alterare la fondata nostra reciproca stima ed accordo, mercè il quale progredisce sempre più
questa Ra Calcografla ».
[35] La leggenda che fu aggiunta in calce del rame è: Questo ritrato, essendo divenuto molto
logoro, fu ritoccato con moltissima difficoltà dallo stesso Paolo
Mercuri, dopo 50 anni che lo avea eseguito, e dopo 15 ch’ egli era colpito da
paralisi nella parte destra.
[36] Ecco, le onorificenze da lui avute:
Ordini Cavallereschi
1838. Cav. dell’ordine di S. Gregorio Magno.
1851. Cav. dell’ordine Piano.
1860. Cav. della Legion d’onore.
1870. Commend. Dell’ordine di S. Gregorio Magno.
1873. Uffiz. Dell’ord. Corona d’Italia.
1873. Commend. Dell’ord. SS. Maurizio e Lazzaro.
1873. Cav. dell’ord. del Merito Civile di Savoia.
Accademie.
1849. Artistica congregazione pontificia
de’ Virtuosi al Pantheon.
1849. Accademia di Belle arti di S. Luca.
1850. Academia Arcadica.
1850. Accademia Ligustica di Belle arti.
1851. Accademia di Belle arti di Bologna.
1851. Accademia Fiorentina di Belle arti.
1857. Accademia reale delle Scienze, Lettere e
Belle arti del Belgio.
1858. Accademia dei Quiriti.
1859. Accademia imperiale di Belle arti di
Pietroburgo.
1861. Accademia di Belle arti di Milano.
1864. Istituto di Belle arti delle Marche in
Urbino.
1869. Istituto di Francia.
1873. Accademia reale di Belle arti di Carrara.
1876. Accademia imperiale di Belle arti di Rio
Janeiro.
Medag1ie.
1834. Medaglia d’oro di seconda classe
nell’Esposizione di Parigi.
1838. Medaglia d’oro di prima classe
nell’Esposizione di Parigi.
1839. Medaglia d’oro di prima classe
nell’Esposizione di Bruselles.