VITA

DI

PAOLO   MERCURI

 

INCISORE

PER

IGNAZIO CIAMPI

PROF. ORD.  DI  STORIA  MEDIOEVALE  E  MODERNA  NELLA  UNIVERSITA  ROMANA

 

 

 

SECONDA  EDIZIONI

CON  DOCUMENTI  INEDITI

 

 

 

 

 

 

 

ROMA

VICENZO  SALVIUCCI  EDITORE

1879

 

 

 

 

L’EDITORE  A  CHI  LEGGE

 

 

 

La vita di Paolo Mercuri, che ora nuovamente si publica, venne già accolta con molto plauso dalla stampa italiana allorchè, circa otto anni fa, vide per la prima volta la luce in una delle più riputate Riviste d’Italia: la NUOVA ANTALOGIA, vol. XVIII, fascicolo del novembre 1871.

Tralasciando molti altri benevoli giudizi, ci basta qui riportare le belle parole che ne fece l’ARCHIVIO STORICO ITALIANO, Periodico di quell’autorità che tutti sanno, il quale, nel tomo XIV, III serie, 6a dispensa del 1871, cosí si esprime: “Con forma eletta, con ordine, con temperanza, senza rettoricumi e senza declamazioni e con molta intelligenza dell’arte ci dà il Ciampi informazione precisa della vita e delle opere di questo incisore, che, vivendo diciotto anni a Parigi, combattendo con constanza e vincendo la fortuna , seppe conservare presso gli stranieri la gloria del nome italiano nelle arti “.

          Una tale accoglienza bastava a giustificare l`oportunità di una seconda edizione di questo libro, che da per sè stesso tanto si raccomanda non solamente per l’insigne nome da cui s’intitola, ma anche per l’amoroso e severo studio che l’autore mise nello scriverlo con tanta squisitezza di pensieri e di stile.

          Oltre poi alla certezza di far cosa grata a quanti in generale s’interesanno di belle arti, un’altra considerazione m’induse a intraprendere la presente ristampa. Sentimenti di affetto e di ammirazione mi legano a Paolo Mercuri: sentimenti oramai tradizionali nella mia famiglia perchè avuti come in eredità dal proavo, il quale da prima  conobbe ed ebbe in molto pregio l’ingegno nascente di chi dovea un giorno diventare così grande nell’arte. E perciò, nel dare alla luce co’miei tipi una nuova edizione della sua Vita, lungi dall’aver preso di mira il mio pecuniario interesse, ebbi l’esclusivo pensiero  di rendere un pubblico omaggio al venerado ed illustre uomo di cui mi pregio chiamarmi anche figlioccio.

          Per  questo intento dunque io mi rivolsi al chiarissimo professore Ignazio Ciampi pregandolo a voler rivedere e ritoccare, ove fosse necessario, il suo lavoro. Ed egli con diligenza lo rilesse, lo emendò in alcuni particolari, vi aggiunse uno speciale capitolo sulle vicende del Mercuri dal 1870 in poi e lo corredò di preziosi inediti documenti.

          Non sarà poi discaro che la presente edizione sia adornata del ritratto del Mercuri dovuto all’abilissima matita dell’egregio pittore Guglielmo De Sanctis, il quale gentilmente volle prestare, per essere riprodotto, il disegno in cui or’ora traduceva dal vero le sembianze dell’amico, dell’artista che, senza tema di adulazione, può chiamarsi una vera gloria non romana solamente, ma italiana, se pure non vuol dirsi europea.

          Roma, 15 agosto 1879.

VINCENZO SALVIUCCI 
AVVERTENZA SUI DOCUMENTI

 

 

 


Dalla celebre raccolta del Bottari alla recentissima del Campori, le pubblicazioni delle lettere artistiche, pet motivi che non occore ripetere, furono sempre acolte con gran favore e tenute in altissimo pregio dagli studiosi. È quindi inutile raccomandare quelle che qui sono presentate. È opportuno però dir brevi parole sopra la scelta di esse e di altri documenti, che poteano anche essere più numerosi, fatta tra le carte del Mercuri stesso.

          Nello scegliere si è avuto di mira un doppio scopo: illustrare vieppiù la vita del nostro artista, e, allontanadosi meno che fosse possibile dal soggetto, dar nuovi materiali alla istoria dell’arte nel presente secolo. E così, ad esempio, per rispetto alla Vita del Mercuri, ora si comprovano i più notevoli fatti ivi narrati (Doc. n. XIII, XVIII, XXII, LXV, ecc.), ora si aggiunge qualche notizia all’elenco de’ suoi lavori secondari (Doc. n. XVI, XXXV, LXX, ecc.),  ora è lumeggiato qualche tratto della sua mente e del suo carattere (Doc. n. VII, XVIII, XXI, ecc.). Quanto poi alla storia dell’arte, crediamo che sieno per riuscire accettissime quelle lettere, ov’è notizia di opere di altri artisti rinomati, e segnatamente alcune, che  potrebbero raggiungere lo scopo di confutare molti erronei giudizî e di raddrizzare non poche torte opinioni (Doc. n. III, XXXIII, XXXVIII, ecc.).

          Si osserverà che tra i nomi di tanti insigni italiani e stranieri (come Bartolini, Minardi, Toschi, Dupont, Robert, Lehmann, Cornelius, Delaroche, Ingres, Pistrucci, Mai, Rossini, Duprè ecc.) i quali s’incontrano a volta a volta in questi documenti, molto più spesso risuoni quello di Luigi Calamatta. Ed in vero egli ebbe più frequente, anzi, diremo, continua corrispondenza cól Mercuri; tanto che le sue lettere sono in gran numero, e ci hanno messo non di rado nell’imbarazzo della scelta. Ma se anche non fosse stato così, noi avremmo preferito le sue lettere ad ogni altra anche del più forbito scrittore. Il Calamatta scrive con negligenza; talvolta non è troppo obbediente alle leggi della lingua e della grammatica; non dà forma sempre precisa alle idee che gli si affollano in testa. Ma pure si fa leggere con immenso piacere perchè è fecondo di pensieri, maestro di giudizî artistici, pieno di cuore, d’immaginazione, di vigore, di vivacità, ed anche in quello strano connubio che fa del fraseggiare francese e romanesco, ci fa sentire la sua indole eminentemente iataliana. Nel pubblicare dunque le sue lettere non ci siamo permessi che qualche piccola correzione, in ispecie nell’ortografia e nella punteggiatura e là dove era necessarissimo per l’ intelligenza del testo. Quanto poi al contenuto, la corrispondenza del Calamata è preziosissima per l’abbondante messe, ch’ella offre a chi piacesse studiarvi il suo generoso e leale carattere e i più ragguardevoli fatti della sua vita. Oltre alla storia di quasi tutte le sue opere, di cui dava a mano a mano notizie al Mercuri, qua e là egli esprime idee giustissime e anche nuove sull’arte, ch’egli osservava nelle opere degli stranieri e specialmente dei Francesi, cól rilevarne i pregi e cól rimproverare audacemente all’Italia artistica i sonni che essa dormìa sopra i suoi vecchi allori (Doc. n. III, VI, ecc.). Non cessa però per questo di svegliar l’emulazione di lei, e di ammirare, ove fosse uopo, la nostra pittura antica e anche la moderna, come quando questa s’ incarnava nel Fracassini, di cui egli lamenta amaramente la morte, dicendola sventura italiana (Doc. n. LXXXII, LXXXIV). Circa all’affetto e alla stima ch’egli avea pel Mercuri, basti ricordare quel che gli scrivea nell’afflizioni cagionategli dal Robert (Doc.n. XIX), e le parole: << Spero d’essere immortale solo per essere stato tuo amico>> ( Doc. n. VI). Vera e sentita poesia è nella descrizione del viaggio pedestre da Firenze a Pisa insieme col figlio di Ciro Menotti, del quale crede di veder l’ombra e di udir la voce (Doc. n. XXVIII): espressione d’immenso affetto alla libertà e all’indipendenza d’Italia in molte letere, e più singolarmente in quella dove descrive l’ingresso di Vittorio Emanuele nella redenta Venezia (Doc. n. LXXXII). Tanto che noi stessi, adunando e trascrivendo le sue lettere, ci siamo rallegrati che con la Vita del Mercuri abbiamo anche raccolto materiali per illustrare la vita del suo grande amico e compatriotta. Così Castore e Polluce (come dal Feuillet erano chiamati il Calamatta e il Mercuri) anche in questo piccolo monumento letterario staranno congiunti.

         

                                                                             I.C. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VITA   DI   PAOLO   MERCURI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I.

 

 

Antenati del Mercuri – Sua fanciullezza – La sua madre –

Principî dell’arte.

 

          Paolo Mercuri fu di stirpe romana assai antica e, quantunque scesa in basso stato, pur sempre feconda di civili e domestiche virtù. Il suo avo Domenico, attendendo al traffico, vivea lietamente con un suo fratello. Ma questi un giorno ruppe la inalterata armonia: perocchè, quantunque in tarda èta, desiderò di ottedere in moglie una donna assai giovane, e per averne il consenso, le fece anticipata donazione di tutto il suo. Ciò dispiacque tanto a Domenico, che preso quello che gli spettava del patrimonio, lasciò al fratello il Negozio dei panni, ed egli si ridusse con la sua famiglia in certe vigne allora allora comperate fuori di porta Portese. Quivi con la moglie  e cinque figli dimorava in modesta quiete, quando un altro amore e un altro matrimonio venne a turbare la sua placida vita. Vicenzo, uno de’suoi figli, bello e grande della persona, s’invaghì fieramente d’una giovinetta pur bellissima di nome Barbara Battaglia e fu corrisposto di pari affetto. Ma i genitori di lei, che aveano parentela con un cavalere di Malta chiamato Antonio Gregna, tutti invasi da idee di nobiltà e ricchezza, eran contrarî a questo matrimonio e con ogni sforzo gli faceano impedimento. Pur nondimeno l’amore ebbe non facile vittoria: ma la giovane, che s’era congiunta a Vicenzo, fu da’suoi privata d’ogni diritto presente e futuro ai lor beni. In tal modo ella portò nella nuova casa solamente le vesti che avea indosso e parecchi libri e qualque poco denaro de’suoi piccoli risparmî: in compenso però vi condusse squisita educazione, virtù intera e sviscerato amore a quell’uomo si die’tittoalla campagna studiandosi d’impare quanto è mestieri all’agricoltura, e a mano a mano più raramente tornò in città, finchè, cresciutagli la famiglia, se ne tenne quasi del tutto lontano.

          La sua industria campestre fu alternata di prospere e cattive sorti: le cose volsero però al peggio quando, durante l’affitto d’un podere, egli raccolse piuttosto polvere di carbone che grano, e poi di caduta in caduta consumò al fine tutto il suo piccolo capitale. In tale avversità non gli rimase altro partito che acconciarsi, come vignarolo, presso i signori Persiani in una vigna fuori porta san Paolo, d’onde nell’estate si recava a Roma per ischivare l’influsso della mal’aria colà dominante. Poco prima di questi eventi, mentre ancora dimorava nelle vigne fuori di porta Portese, la sua casa fu rallegrata da due gemelli, che nacquero il dì 20 aprile 1804, di mattina, alle ore undici italiane, e l’uno ebbe nome Pietro Gaspare e l’altro Paolo Baldassare, che fu il nostro celebre artista. Ebbero battesimo nella parrochia di Santa Maria del Carmine, detta la parrochietta, fuori di porta Portese circa tre miglia. Non poteva però la tenera lor madre provvedere ad ambedue con latte del suo petto, nè consentivano a valersi d’una balia le domestiche strettezze. Perciò fu tolta una capretta e data alla madre in aiuto per alimentare i due bambinelli. Lungo tempo rimase nella memoria della famiglia e con affetto riconoscente si narrava parlari domestici l’amorosa cura mostrata da quella intelligente bestiuola verso i due, come avesse concienza del grazioso e importante incarico a lei affidato. Li leccava spesso con la sua lingua, quasi baciandoli; scherzava con essi, e quando li udiva piangere, accorreva e si ponea in quella positura che fosse accomodata al loro poppare.  Poco dopo ambedue i bambini erano còlti dalla rosolìa: il primo ne morì, ma Paolo fu salvo. Questi dunque, giunto all’età di cinque anni, dette segno precoce della sua inclinazione alle arti figurative. Una signora venuta per visitare i genitori di lui, gli facea dono d’intagli di carta, che, messi dietro al lume, produceano ombre mutabili e fantastiche di uomini e di cose. Tanto piacquero al fanciullo quei balocchi, che cominciò a farne di sua invezione, poi a poco a poco crescendogli il diletto e l’audacia, allorchè non avea voglia di toccar la penna, uscìa dal recinto della vigna posta sulla riva del fiume, e con quel greto modellava uomini, cani, cavalli e ciò che vedea, tanto che può dirsi che alui prima maestra e nutrice fu la stessa natura.

          Avvenne intanto che Paolo Salviucci, libraio tipografo, propose a Vicenzo di prendere in cura un sua vigna posta nel territorio di Marino. Questi accettò volentieri l’invito, e ben presto si portò colà insieme con la sua famiglia. La loro dimora era nel convento che fu degli Agostiniani allora cacciatine, poco oltre la porta della cità. Come alla mente di Giacomo Leopardi la solitaria biblioteca della casa paterna, così agli occhi del piccolo Paolo furon prima scuola dell’arte alcune stampe, che, abbandonate e polverose, pendeano dalle pareti del chiostro. Tra le altre vi era il grande e bel Cristo cocifisso dipinto dal Le Brun ed inciso dall’Edelinck: stampa che dagli angeli preganti in cielo e in terra piangenti, fu nominata il Pianto degli angeli: degna compagna degli altri capolavori, quali sono la Sacra famiglia di Raffaele, il Ritratto dello Champaigne, la Maddalena, la Tenda di Dario. Non si saziava Paolo di guardarla e di mostrare con atti e voci fanciullesche la sua compiacenza: non fu pago però interamente che quando gli parve di averla in sicuro possesso, cioè a capo al letto, come pregò ed ottenne dalla compiacente sua madre. D’allora in puoi non furon più salvi nè carte, nè inchiostro, nè penne in quella casa. Tutto era preso da Paolo e adoperato a contraffare, o bene o male, ogni sorta di stampe. La tempesta fu alquanto cheta, allorchè, compiuto un certo ritratto del figlio del medico, Paolo ebbe in premio delle sue fatiche un lapis piombino.Gli parve di possedere un tesoro, e volle subito usarne degnamente col ritrarre di profilo le sembianze di sua madre. Questa, intenerita e ammirata, mostrava quel ritratto a chiunque le capitava innanzi, non senza prima baciare il volto del fanciullo, di cui era sì lieta e orgogliosa. Forse ella indovinò primamente il vero ingegno di lui e presentì, con l’istinto proprio della donna e della madre, le future sue glorie. La preziosa carta però, per le tristi vicende famigliari, non fu conservata; e di ciò soleva dolersi dappoi il Mercuri: chè perduta nella sua tenera età miseramente la madre, non potè aver nulla che gliene ricordasse i cari lineamenti. L’informe ritratto segnato dalla mano del fanciullo li avrebbe pure rammentati, anzi risuscitati alla pietà filiale a all’intenso desiderio dell’artista maturo. Almeno sarebbe stato un prezioso ricordo di ciò che formò la gioia e la delizia di quella donna tutta amore, sagrifizio ed affetto!

          Ella e non altri insegnava a Paolo a leggere e a scrivere, e vegliava e presiedeva a’suoi giuochi. Avea questi un fratello già giovinetto: ma sopra tutto amava una sorellina, con la quale correva e scherzava gaiamente pei lunghi corridoi del convento. Sorridendo il Mercuri ricorda come un giorno, girando pel chiostro e frugando da per tutto, ritrovarono dentro un armadio delle pianete di ganzo d’oro. Se ne cuoprirono ambedue, e dopo aver così passeggiato un pezzo, s’assisero sopra certi seggioloni per cantar la messa. Ma quivi, come avviene ai bambini, s’addormentarono, e in tal positura ridevole sorpresi dalla madre e sgridati, furon privi per sempre di quel maestosso divertimento. La sorelluccia poi s’ammalò e morì: di che Paolo fu così dolente che non volea più mangiare, e solamente si confortò alquanto allorquè la madre, già incita, gli promise un’altra sorellina. E questa non tardò a venire alla luce il primo agosto del 1813 (tredicesima dei figli di Vicenzo e sola che col nostro sopravvisse) e fu nomata Eurosia, in onore di una santa già da Paolo disegnata. Così a mano a mano egli si confortò, e poi si rallegrò nel vedere graziosa e ben portante la nuova venuta: laonde si die’un’altra volta al piacevole gusto di ritrarre colla penna e col lapis tutto ciò che gli occorreva alla vista e toccava l’immaginazione. Vispamente vagava e correa per la vigna, e curioso d’ogni cosa naturale, talora sostava a guardar vipere e serpi nei viali e tra l’erbe. Un giorno i genitori si penavano molto per non vederlo ritornare a casa. Allorchè gioiosi lo rividero, gli domandarono perchè s’era tanto indugiato. Ed gli con innocenzza raccontò d’essersi fermato a guardare il giuoco di due serpenti, che l’uno rimpetto all’altro si faceano dritti, e poi si attorcigliavano, e nuovamente divisi saltavano a grande altezza. La madre spaventata lo garrì e gli narrò paurose leggende e storie di serpi: onde dappoi Paolo cangiossi da ammiratore in persecutore di essi, e munito di canne li cacciava e percoteva, non senza suo pericolo, ovunque li trovasse.

          Il Salviucci, recatosi a Marino, avea visto le artistiche prove di Paolo, e lodatolo molto, lo fornì poi di matite in copia. Riconoscente il fanciullo, gli offerse e la Santa Eurosia imitata col lapis da una stampa, e un Cristo morto di rilievo intagliato col temperino in un osso di seppia. Tutto lieto il Salviucci accettò quelle primizie, e le mostrò con onore del piccolo artefice e con meraviglia dei riguardanti persino a dei professori dell’Accademia di san Luca. Oltracciò promise solennemente di proteggere il fanciullo per quanto fosse in lui: e mantenne poi con religione la sua promessa.

          Intorno a quel tempo fu pubblicata l’ultima napoleonica coscrizione, e Mariano, fratello di Paolo, in essa compreso, benchè uscioto allora allora da una malattia fu portato al quartiere delle milizie. Il padre con segni di gran dolore corse dal maire o sindaco, e offerta invano una somma pel riscatto, supplicò che almeno non lasciassero subito partire il figlio così debole e malconcio qual era. Ciò gli fu promesso: ma una notte, senza che il povero giovane potesse dar l’addio a’suoi parenti, nè portar seco quel che gli aveano preparato per disastroso viaggio, fu fatto celatamente partir da Roma. Montò in furia il padre infelice, e non uccise colui, che gli mancò di fede, perchè Dio non volle. Al fine, dopo vane ricerche e infinite angosce, giunse la mesta nuova che Mariano, condotto a Lione e gittato sopra un letticciuolo d’ospedale, ivi era morto. Ciascuno si può figurare il dolore della famiglia e specialmente quello della madre, la quale d’allora in poi patì grande alterazione nella già fiorente salute. E perchè un male ne chiama un altro, così sopravvenne lo spavento d’un terremoto, onde Marino fu scossa più notti, e caddero case e morirono più persone. Quindi un fiero uragano, che spezzò i vetri delle finestre e le tegole del tetto e parea volesse crollare la casa. Paolo dormente fu tolto in sulle braccia dalla madre atterrita e portato fuor del convento in aperta campagna, mentre le tegole investite dal turbine rotavano e cadevano con gran rumore e minaccia intorno ai fuggiaschi.

          Da ultimo più luttuoso avvenimento. Stando Vincenzo a Roma per alcune faccende, la moglie affaticatasi vicino al fuoco per allestire una conserva di frutti, se ne ritrasse con la gola infiammata. La mattina appresso cioè l’11 novembre 1813, per cura se ne stava in letto; ma, porgendo il latte alla bambina che non aggiungea tre mesi, fu assalita da acuto dolore, da una stretta alla gola (effetto forse d’un vizio organico latente), e miseramente soffocata, morì. Paolo era solo in quel momento. Tolse la bambina che pur suggeva il latte dall’ancor tiepido seno della spenta, e con essa in braccio fattosi alla finestra, chiamava con disperate grida la gente a soccorso. Salirono molti e fra essi il marito, che proprio allora giungeva dalla città. Visto il miserando spettacolo, questi si piegò sul corpo della poveretta, e piangendo e abbracciandola, con voce affannosa la chiamava quasi sperando che all’amata voce si riscuotesse. Ahi l’oggetto di tanto amore, di tanti dolori insieme sopportati, e di sì pure e sublimi consolazioni non era più! Perderlo così all’improvviso! senza una parola d’addio! Ella toccava appena i quarant’anni: e fu sepolta nel cimitero di San Barnaba in Marino.

          La bambina fu data a balia. Paolo non disegnava più.

 

 

 

 

 

 

 

 

II.

 

 

Paolo Salviucci – Il Mercuri nell’Accademia di San Luca –

Nell’Ospizio di San Michele – Studî – La prime pruove –

Il Cristo morto - Il San Giovanni da Capistrano – Morte infelice del padre.

 

Sollievo alle dolorose lagrime dettero il tempo e il corso d’altre vicende. La famiglia Mercuri dovea da Marino recarsi a Galliacano, ov’erano altri possedimenti del Salviucci. Paolo che avea allora nove anni, innamorato delle stampe del convento, volea tutte portarle seco, e non v’era modo di sviarlo da quell’idea. Con molto sforzo finalmente lo persuasero a contentarsi di due sole, conservate ancora da lui per memoria, cioè un Cristo che porta la croce, dipinto dal Mignard e inciso d’allAudran, e un Gesù presentato al tempio, dipinto dal Boullogne e inciso dal Drevet. Col suo tesoretto e col malinconico pensiero della madre giunse al nuovo paese, e fu accolto dal Salviucci nella sua casa. Quivi ammalatosi gravemente, guarì per le cure avutegli da Orsola, moglie di Paolo Salviucci: e poi  ripreso vigore sul colle di Santa Maria, nel casino della vigna, a mano a mano si risvegliò alla vita e alla gioia proprie della sua età, e riprese a disegnare, a colorire con sughi d’erbe, a intagliar figure d’ogni fatta sul legno, a correre per la campagna, a inseguire farfalle e serpenti.

Tornati tutti quanti a Roma, Vincenzo Mercuri sorvegliava le vigne dei Salviucci fuori di porta San Paolo stava in casa di quelli al Corso sul canto dei Tre ladroni, ov’era il loro Negozio di libri e quivi presso, nel palazzo accanto a san Marcello, la bella tipografia. Il vecchio Paolo Salviucci conduceva il nostro a visitar chiese, gallerie, palazzi; insomma lo mettea nella conoscenza di Roma, e fedele alla promessa fatta, egli stesso si prese cura di aprirgli la desiderata carriera dell’arte. L’Academia di San Luca allora in sant’Apollinare e dove insegnavano a quel tempo Landi, Agricola, Laboureur e Pozzi, accolse il giovinetto: il quale dette subito sentore del suo svegliato ingegno, quando messagli innanzi, senza fargli motto, una stampa di principî, cioè occhi, nasi, bocche, volti di profilo e di faccia, egli, per non erare, copiò tutto da capo a fondo assai bene, e n’ebbe grandissimi elogi dai maestri. Così studiando assiduo, avvenne alcuna volta che tornò a casa un poco più tardi per il soffermarsi che faceva a veder dipingere il custode dell’Academia, un vecchio francese che avea nome Salos. Rimproveratone, si guardò qualche tempo da ricadere nel fallo; ma vinto dall’artistica vaghezza, si dimenticò poi del buon proposito: tanto che nuovi rimproveri e appresso a questi un cambiamento improvviso nell’ordine della sua vita avvenire.

          O per questa o per altra nascosta ragione, il Salviucci lo chiamò un giorno ed espresse la volontà di porlo nell’Ospizio di San Michele a Ripa, ove, secondo lui, era copia di più buoni ed utili ammaestramenti. A Paolo dolea sommamente doversi separare da sì amata famiglia. Pur nondimeno piegò, rassegnato, il capo, e chiese solamente per grazia di poter rimanere ancora un poco nella scuola di Sant’Apollinare per dar termine a un corso di lezioni d’anatomia dal vero già incominciate. Ottenutane licenza, non cessò di lavorare a tutt’uomo, e in breve eseguì i disegni anatomici in lapis rosso e nero, adoperando per dar nome ai muscoli le opere di autori valenti. Ciò fatto, si pose a obbedienza del suo protettore; e il 1o maggio del 1816, portatovi dallo stesso Paolo Salviucci ( che di suo pagava la pensione) entrò nell’Ospizio di San Michele: in quell’Ospizio, che creato a educare i giovani del popolo ai mestieri più necesarî, più sicuri e, per il maggior numero degli uomini, anche più dignitosi, fu poi, per mollezza e vanagloria di chi lo presiedeva, deviato dal suo santo scopo e fatto semenzaio di scultori, pittori e architetti, i quali, uscitine e non trovando lavoro (impossible per tanto numerosa caterva), strascinavano una sterile, fastidiosa vita tra la boria d’un merito immaginario e l’umiliazione d’una invincibile, uggiosa miseria[3].

          Il Mercuri, entrandovi, pensava forse a qual ramo di arti si sareble appigliato, e sognava, a compenso delle dolcezze che avea perduto, abili maestri, comodi studî, futuri trionfi. Cadde però subito da ogni lieta immaginazione, quando si vide condotto dentro l’ officina d’un libraio.

Ne domandò la ragione, e gli risposero, sorridendo, ch’era per avviarlo a quella professione, e ciò per ordine di chi poteva. Egli allora a gridare e a protestare ch’era ivi venuto per attendere al disegno e non già per tagliar carta e legar libri, e gli spietati suoi conduttori a ridere di nuovo e poi a far viso torvo e a dire che lì dovea rimanere o per amore o per forza. Allora egli, infuriando, si diede a fuggire, e correndo velocemente, uscì fuori dell’Ospizio. Raggiunto da uno de’prefetti che gli mosse dietro, ricalcitrava ancora, e con forza maggiore di fanciullo si divincolava, e alla fine s’indusse a tornare al suono d’una solenne promessa che i suoi desiderî sarebbero appagati. Il presidente dell’Ospizio, monsignore Olgiati, si trovò a pie’della scala, quando il piccolo fuggiasco fu ricondotto. Amorevolmente però lo raccolse, e udite le sue ragioni, egli stesso l`acompagnò a Francesco Giangiacomo, ch’era il maestro del disegnare, acciocchè gli mettesse l’arti alle mani.

          Qui comincia veramente la vita artistica del Mercuri, imperocchè nell’Ospizio di San Michele non solo imparasse, ma anco facesse opere che non saranno dimenticate dai posteri. Se non altro ebbe ivi la ventura d’incontrarsi con quel giovane, che poi fu illustre io dico il Calamatta; ingegno caldo, fecondo e capace di quell’amicizia, che nè per tempo, nè per vicende, nè per cangiare di climi o di Fortuna si muta o vien meno. Quivi s’incontrarono e s’amarono poi sempre, anche a Parigi, in mezzo alla fama crescente d’ambedue, nell’esecizio dell’arte medesima, fonte, più che di dolci legami, d’invidie, d’inimicizie ai volgari in balìa dei maligni, i quali gioiscono delle gare stizzose degl’ingegni e ne fanno argomento di consolazione alla loro nullità disperata.

          Il Giangiacomo prese in grande affetto il Mercuri, e dirigendolo nelle copie dei gessi e dei cartoni, gli permetteva anche di andare insieme col Calamatta e altri giovani all’Academia per istudiare il nudo. Nel primo anno Paolo fu considerato; nel secondo anno(1820) ebbe il primo premio, che, dopo i tre anni necessarî di aspettazione, gli fu nuovamente conferito. Fra queste occupazioni non gli facevano difetto i conforti del padre e dei Salviucci. L’uno, nella visita consueta d’ogni domenica, gli donava del denaro, da lui impiegato in buoni libri; gli altri andavano spesso a trovarlo, e il buon Paolo Salviucci talvolta lo portava a passeggiar seco e a fargli osservare le cose notabili di Roma[4].

Se non che questi, appunto verso il 1820, dopo brevissima malattia, passò a miglior vita, e lasciò assai dolente il nostro, che in lui perdeva, più che un protettore, un secondo padre, un amico. Non ristettero, è vero, gli altri Salviucci dal mostrarsi benevoli verso il Mercuri professandogli continua affettuosa amicizia.

Somigliantissima poi per ingegno e per animo a Paolo suo padre, Matilde Salviucci (maritata in apresso a Vincenzo Poggioli, avvocato) scambiò sempre con il nostro fraterna tenerezza. Ma tropo avea il Mercuri radicato nel cuore l’affetto e la venerazione verso il cortese vecchio, da non sentire amarissimo e profondo dolore di averlo perduto.

A distrarre Paolo con necessarî studî il Giangiacomo lo mandò nelle

Camere vaticane a disegnar le opere di Raffaele. In tal guisa la giornata del nostro era piena e proficua. La mattina all’Academia pel nudo; indi al Vaticano; la sera nelle stanze dell’Olgiati a copiare stampe e a leggere buoni libri. In queste serate lesse tutto il Winkelmann, e si servìa d’una grammatica greca per interpretare almeno i nomi proprî nelle citazioni di quell’insigne lavoro.

Non vuolsi qui tacere un grazioso aneddoto. Usciva Paolo di buonissima ora per andare all’Accademia; si recava poi subito alle Stanze vaticane, nè tornava all’Ospizio che verso sera, passando così digiuno l’intiera giornata. Pativa quindi veramente la fame e correa pericolo di ammalarsi. Nè di ciò egli facea motto ai suoi superiori per la tèma (immaginaria forse) che gli venisse tolto il permesso speciale per cui potea assentarsi dall’Ospizio: tanto egli era avido di studiare! S’accorse però di tal fatto un uomo insino allora sconosciuto al Mercuri. Questi, che si chiamava Zeffirino Sirletti ed era custode delle Camere di Raffaele, gli offerse di dividere insieme il suo pranzo; e perchè Paolo si mostrava esitante ad accettare, gli fece credere, con delicato pensiere, che ciò facea per incarico e a tutte spese dell’Ospizio. E solamente quando, finiti gli studî, il Mercuri ne ringraziava l’Olgiati, potè sapere il vero della squisita cortesia ricevuta.

All’Olgiati succeduto un altro preside (Cicalotti), questi, continuando la benevolenza dell’antecessore verso il Mercuri, gli permise insieme con un altro giovane di uscire talvolta dall’Ospizio in abito borghese. Nè ciò bastando, gli concesse due grazie: l’una che fosse dispensato dal pagar più la pensione: l’altra, che la sua sorella Eurosia fosse ammessa nel Conservatorio delle donne nell’Ospizio medesimo.

Il disegno a San Michele avea, tra le arti belle, per iscopo quella dell’incisione. Furono perciò a Paolo maestri Antonio Ricciani, fatto poi direttore dell’Accademia di Napoli, e Domenico Marchetti, entrambi valenti. Così egli ebbe modo di trattare il bulino a tempo giusto; imperocchè si sappia che siccome il maneggiar troppo presto il bulino distoglie dalla matita e fa gli alunni riuscire incisori meccanici; così tardano oltre il dovere l’uso dei ferri, la mano diventa men pieghevole e il buon disegno non salva dal divenire, anzichè artisti, graffiatori del rame. Varie cose eseguì allora di bulino: un Sant’Eligio, una Madonna addolorata, una Santa Firmina tutt’e tre a contorno, e di sua invenzione un San Giuseppe disegnato e inciso a tutto effetto, a all’acqua forte l’Assunzione di San Domenico. Nel San Giuseppe l’artista già mostra la purezza del suo disegno, e senz’essere ancora originale, dà a dividere quella maniera, onde poi fu eccellente, nel chiaro e luminoso, direi, delle figure, e nel tratteggiare con differenza le carni secondo che son di giovani, di donne, di vecchi. Il bambino da San Giuseppe tenuto in braccio, accostato al volto di questo, spicca nella sua molle carnagione presso le guance e le mani del vecchio robusto, e sembra in tutte le parti della persona mostrar lume divino[5]. Ma tal sorta di lavoro non appagava punto il giovane, ed ei si struggeva dal desiderio di apprendere l’arte della pittura. Intanto senz’alcun maestro vi si provara, ed eseguiva a olio e a tempera varie cose, che vedute pure adesso, non solamente paiono di mano matura o almeno bastantemente …..

Pratica, ma anche sono commendevoli per se stesse e tali che se ne potrebbe vantare qualunque artista. Inventò e dipinse a olio un San Filippo Neri, un San Luigi Gonzaga per il parocco Fazzini, il quale lo incoraggiava donandogli di che comperarsi i colori [6], e parimente fece a olio due Madone che si conservano ancora nella chiesa di San Michele. A tempera esseguì tre rappresentazioni di quelle che usa di fare a Roma nei giorni della commemorazione dei morti, intagliando le figure di naturale grandezza dipinte sul cartone e disponendole all’uopo con in fondo l’apposita scena. La prima fu Giuseppe in carcere che spiega i sogni ai coppieri di Faraone; l’anno appresso Giuseppe riconosciuto; da ultimo Giuditta che mostra la testa d’Oloferne. Curò di dare alle figure quel rilievo che bisognava perchè paressero vive, e in tal modo raggiunse l’effetto dell’illusione ottica, e ne riscosse vivissimi e sinceri applausi. Oltraciò compì molti ritratti, e fra gli altri disegni fece quello del quadro di San Michele e di una Madonna col Bambino e San Giovannino[7] ramente degno, invano desiderò. Da un certo monsignor Ponari, nel gennaio 1821, gli furon commessi parecchi quadri per la chiesa di San Pietro a San Germano in Terra di Lavoro. Ed egli eseguì in fatti un quadro d’altare rappresentante Gesù che dà le chiavi a San Pietro in presenza degli apostoli; una Madonna in gloria e poco più sotto di lei San

Benedetto e Santa Scolastica; un Cristo grande, che mostra il cuore, coi cherubini ai lati; un San Mauro abbate ed un San Placido, ambedue monaci benedettini, ed ognuno di essi in mezza figura. E con tanta cura vi si adoperò, che prima di dipingere i due primi di questi quadri, modellò in creta tutte le figure per meglio studiarne l’effetto. A quale altezza giungesse in età così verde, sarà testimonio perenne il Cristo morto di naturale grandezza, ch’egli fece nel 1822 per un paliotto destinato alla festa o commemorazione del Santo sepolcro. Il quale, conservato sempre a San Michele ed esposto nel 1870 alla pubblica vista nel chiostro di Santa Maria degli Angeli, fe’impallidire le tele di coloro, che nel tempo della giovinezza del nostro erano già provetti e troppo famosi: di coloro, dico, che s’erano ben nutriti dell’antico e di Raffaele, ma non li aveano ben digeriti. E per vero non si può desiderare in tal lavoro più studio della natura congiunto a elezione di forme convenienti alla divinità. Veramente il Mercuri poteva essere un gran pittore, e non gli si può perdonare di non esser giunto a ciò, che per la gloria acquistata sopra tutti nell’incisione, onde meritò che in Francia gli dicessero, allorchè espose la Sant’Amelia: «Egli scrive sotto i suoi rami: Mercuri pittore. O signor Mercuri! Voi dovete essere davvero un gran pittore: ma per l’evvenire dell’incisione, per l’amore di quest’arte, ve ne preghiamo, restate incisore![8]»

Intanto il buon sacerdote Fazzini, vista la valentia del giovanetto, gli facea, secondo suo potere, da Mecenate, e continuava ad animarlo dandogli commissioni di varî santi e madonne a tutte sue spese. E fu pure il Fazzini che gli fece dipingere per l’Ospizio il detto Cristo morto.

Nè per questo il Mercuri lasciò l’esercizio dell’incidere: anzi con un solo bulino imprestatogli fece il ritratto di Fra Giovanni da Capistrano, che fu Generale dell’ordine di San Francesco: nel qual lavoro (eseguito nell’ore della notte) già balenava quel non so che tutto suo ed originale mostrato così altamente dappoi. Doloroso è a dirsi; ma per certo se tale stampa fosse stata pubblicata in altro paese, avrebbe posto subitamente il giovane fra i grandi artisti. Voi vedete quella testa spiccarsi vera e viva dal fondo: quegli occhi parlano; quella bocca par che da un momento all’altro stia per farvi udir suoni articolati. La luce, che batte sul lato sinistro del volto, dà ombra al destro e in questo illumina alcune parti prominenti; e nell’ombra non è l’oscuro dei tratti, ma un freddo lume che gira. Tutto è finito; nè le minuzie diatraggono dall’insieme; e, come nel vero, da vicino contate le rughe, da lontano abbracciate senza impaccio la generale espressione del volto[9]. Difficile è il rinvenimento delle copie di questa stampa, e chi è sì fortunato di trovarla, la ritiene per tesoro da porsi a capo della serie a mano a mano più preziosa delle opere del Mercuri.

Così l’alba della vita artistica a questo sorrideva lietissima. Il Canova recatosi a vedere il quadro di Gesù e San Pietro dipinto per San Germano, se ne mostrò appagato assai, e incoraggì il novello pittore e gli promise il suo appoggio. Una società, a cui era affidata la pubblicazione del museo di Madrid, voleva inviarlo in Ispagna[10]. Lord Kinnaird tre volte chiese il giovanetto al Consalvi e prometteva di dargli numerose ordinazioni a Londra : ma il cardinale non acconsentì dicendo che non volea toglierlo a Roma e che lo avrebbe con molto decoro provveduto. E per vero l’avea già presentato a Pio VII, il quale concesse al Mercuri una pensione di cinque scudi al mese per tre anni (14 settembre 1821).

A un tratto, come uno spirito infernale si fosse compiaciuto di tormentare una nobile anima, o veramente fosso scritto che questa dovesse divenir più grande per via d’ immeritate sciagure, ogni più bella speranza svanì d’improvviso.Il sommo Canova, partito per Venezia, colà poco dopo moriva. Pio VII pure chiudeva gli occhi per sempre : il Consalvi seguiva nella tomba il suo sovrano.

Nè dalla prostrazione, in cui era, fu il povero Mercuri potuto rilevare dal francese Camillo Bonnard, che gli ordinava il disegno in grande del Giudizio di Michelangelo per eseguirlo poi il litografia. Imperocchè sebbene vi fosse l’editore (un certo Motte), e già le pietre e i torchi stessero là pronti; il nuovo pontefice Leone XII per quelle idee retrive, che lo fecero sì tristamente famoso nella storia, non volle dar licenza alla diffusione dell’ammirabile pittura, e coloro, ch’erano a capo dell’impresa, furono costretti a vendere tutto ciò, che avean preparato, al pittore Camuccini: il quale se ne servì per esseguire la vita di Gesù Cristo da lui inventata.

Un filo di speranza pur rimaneva a Paolo, ed era un quadro commessogli per l’altar maggiore dell’oratorio del Caravita. In quell’anno appunto, e fu l’8 novembre 1825, uscì dall’Ospizio di San Michele[11], e presse in affitto una stanza adatta all’eseguimento del suo unico lavoro[12]. Mentre mesto e pensoso del suo avvenire, e pure di tanto in tanto rasserenato dalla speranza del buon succeso di quell’opera, se ne occupava abbozzandone la composizione; dei ladri, entrati in quell’oratorio, nettarono la cassa dei denari e privarono l’ertefice della sua ultima risorsa. Da che, perduto il tesoretto accumulato pel prezzo del quadro (e i gesuiti eran sì poveri!), fu mestieri differirne l’esecuzione sino a che nuove elemosine e offerte venissero a riparare il danno avvenuto. Nulla, proprio nulla, rimaneva al giovane, che inoperoso, obliato, si risolvette infine, per campar la vita, a opere più modeste. Fu nel 1826 che disegnò a tutto effetto il Ritratto di suo padre, stupendo per verità e squisitezza di lavoro, e da lui, come prezioso ricordo, conservato ancora. Inventò inoltre ed eseguì a penna, per Felice Feuillet de Conches, tre disegni con cui questi voleva ornare una bellissima edizione delle Favole del La Fontaine cioè l’Aquila e lo Scarafaggio, Democrito e gli Abderitani, il Sogno[13]. E per lo stesso Feuillet copiò anche a penna un Ritrato del Machiavelli da un antico originale che fu poi portato in America. Nè anche in ciò gli fecero difetto le meritate lodi: di che fa testimonianza lo stesso Feuillet nella sua lettera da Parigi del 2 decembre 1829, ove son degni di nota i seguenti passi: «Devo cominciare dal rendervi grazie della gentilezza usatami pe’due disegni compiuti per il mio La Fontaine, e di ciò sono riconoscente anche al mio amico Calamatta per avermi cortesemente a voi raccomandato. Sovrattutto il disegnio del Sogno ha incontrato la viva approvazione degli artisti e dei conoscitori; ed esso sarà uno dei migliori ornamenti della mia opera europea. Il signor Calamatta m’ha incoraggiato a pregarvi per un nuovo disegno, cioè per il ritratto di Niccolò Machiavelli, ch’è impossibile eseguire a Parigi, ove del Segretario fiorentino non si rinvengono che cattive incisioni e nulla di qualque autenticità per servir di modello. Il Calamatta mi assicura, e vi darà a tal proposito delle informazioni, ch’esiste in Roma in una galleria un ritratto, che potrà bene servirvi all’uopo. Ho fatto fare da un abile architetto un quadro, di cui vi mando il disegno: vi pregherei di volerlo eseguire a penna. Il ritratto dovrebbe stare nel tondo lasciato dal quadro. Avrò nel mio La Fontaine 31 ritratti; cioè quelli delle persone, a cui egli ha dedicato le opere e quelli degli autori, da cui ha preso i soggetti. Ingres, Gérard, Guérin, Calamatta mi fanno un ritratto per ciascuno. Sir Tommaso Lawrence, il primo pittore del re d’Inghilterra, ha preso l’incarico di far quello di Carlo II. Sarei ben lieto se voi vorette stare in loro compagnia».

Non deve tacersi che nel periodo, che corse dal 1826 al 1830, il giovane artista ebbe l’onore di essere scelto a dar lezioni di disegno a Giovanni figlio di Carlo Thevenin già direttore dell’Accademia di Francia, e anche alla figlia di Orazio Vernet, che allora dirigeva la detta Accademia. Questa giovinetta fu poi moglie del celebre pittore Paolo Delaroche.

Fu allora que il Bonnard lo invitò a disegnare e ad incidere a contorno i Costumi del medio evo sino al numero di duecente tavole. Egli acconsentì di far l’opera; e quella gli parve, in mezzo alle angustie, una propizia occasione per istornare il pensiero dalle sue avversità e visitare l’Italia e vederne a parte a parte le belezze già nella sua mente vagheggiate da gran tempo. Fatte prima le copie in Roma di quanto gli servìa all’uopo su pitture antiche, vetri istoriati, miniati manoscritti, statue, pietre sepolcrali, viaggiò per lo stesso oggetto in Toscana e nel Lombardo-veneto: d’onde, qui tornato, fu còlto da tale sciagiura, che lo mise a pericolo della fama e della vita, e gli fe’lasciare con dolore e, quasi dissi, con aborrimento il paese natale.

Il suo padre avea sposato da qualche anno in seconde nozze una onesta vedova di nome Maria, e se la vivea ritirato in campagna coi proventi che gli davano una vigna da lui condotta fuori porta San Paolo e un’osteria posseduta dalla sua moglie ivi presso. Questa però avea un figlio del primo letto, il quale, crescendo in età, a mano a mano spiegava la sua indole astiosa, litigiosa, intollerante d’ogni ragionevole freno. Il solo patrigno era quello che, talvolta usando dell’autorità concessagli dal suo stato, gli s’opponeva, e cercava correggere in lui gli eccessi del bere, del giuocare e persino del ciuffar denari alla casa. Era dunque naturale che contro il patrigno si volgesse tutta la stizza del giovinastro, la quale mutossi in odio irreconciliabile. Così stando le cose, un giorno (4 novembre 1829) che Paolo nel suo Studio era intento all’incisione di non so qual tavola dei Costumi, ebbe l’infausta notizia che suo padre era stato percosso mortalmente nel capo dallo scellerato figliastro. Fu per cader morto dal dolore. Ma ripreso figlio, uscì e corse all’ospedale della Consolazione; e là trovò il padre, che da prima creduto spento, avea a poco a poco ricuperato l’uso dei sensi. Il misero era stato colpito da una oggetto pesante sull’alto della fronte a destra, e avea rotto l’osso del cranio. Rassegnato, tranquillo, Vincenzo accolse suo figlio, e parlò di perdano con tanta veemenza, che Paolo, per tema che il sì caldo discorrere gli nuocesse, fece forza sopra se stesso, e per ridurlo al silenzio, suo malgrado, s’allontanò. Partì desolato e pieno il cuore del desiderio di vendicare il suo sangue. Transportato da sì fiera passione, si trovò per la via di San Paolo, e cercava con ansietà il feritore per ucciderlo od essere ucciso. Alcuni monaci di quel chiostro incontratolo così fuori di sè, gli dissero che il reo già stava nelle mani della Giustizia . Allora egli volse di nuovo il frettoloso passo all’ospedale, e potè ancora rivedere per l’ultima volta l’infelice suo padre, che il 16 novembre, in età di 53 anni, spirava. L’angoscia di Paolo fu quale può immaginarsi in un cuore sì amorevole, appassionato[14]. Tutti dell’ospedale piangevano al suo pianto; e la morte d’uno sconosciuto si fece per istinto di pietà quasi domestica sciagiura. Non potendo altro, Paolo supplicò per avere il cranio del padre, e quello da uno dei più giovani medici poco dopo gli fu dato. Lo conservò egli religiosamente: anzi, postolo in bene adatta custodia, lo tenea nel suo Studio sempre innanzi a’suoi occhi. Partitosi però da Roma, da cui non credea dilungarsi  per tanto tempo, la preziosa memoria quivi lasciata fu deposta da Giuseppe Salviucci in una sepoltura della chiesa dei Santi Apostoli; ma non una piccola pietra segnò il luogo in cui giace: di che ebbe Paolo immenso dolore. Il corpo del povero Vincenzo fu seppellito nel Campo santo dell’ospedale di Santa Maria della Consolazione. Uscito Paolo dalla patria, l’assassino trovò alcuni protettori, che, per non addolorare più oltre la madre, finsero e fecero credere alla Giustizia che Vincenzo, cadendo, avea percosso la fronte nei sassi e si era reso così mal concio. Fu salvo in tal modo il tristo dalla galera e forse dal patibolo: ma poco prima che il nostro rimpatriasse, passò all’altra vita.

 

 

 

 

 

 

 

IV

 

 

                                                La Sant’Amelia ‑ Il Mercuri è posto fra le grandi glorie

                                                dell’arte ‑ Il Torquato Tasso ‑ Il Cristoforo Colombo –

                                                Altre opere ‑ Giovanna Gray Il Mercuri è chiamato a

                                                Rorna ‑ Saluti della Francia all’artista italiano.

 

Il plauso suscitato dalla stampa dei Mietitori, fe’nascere negli editori Rittner e Goupil il desiderio di valersi della stupenda valentia del Mercuri. Av­vedutamente pensarono che una pittura, benchè men bella, ma più variata, avrebbe potuto esercitar meglio l’ingegno dell’incisore: e a quest’effetto scelsero il piccolo quadro della Sant'Amelia, di Paolo Delaroche.

Una graziosa regina vive in alcune stanze d’un poema ungherese e nelle popolari leggende dei nordici paesi. La rappresentano giovane, bella, amica dei poveri, ornata di dolci e sublimi virtù. Avea in co­stume di recarsi, ogni mattina, accompagnata dalle sue ancelle, a pregare in un tempietto od oratorio posto nel mezzo del suo giardino, e di offrire a Dio quei fiori, ch’ella amava tanto e coltivava con le sue mani medesìme. Fu rapido il corso della sua vita, e la sua gloria non fu che un leggiero rumore, una delicata armonia perpetuatasi gratamente fra molte e lontane generazioni. Paolo Delaroche ne risuscitò le sembianze, e ne fece un quadro per la cappella della regina alle Tuilleries. La santa è vicina all’altare col suo bel diadema sul capo : posa i ginocchi sopra un cuscino di seta e d’oro: levati gli occhi, offre sovra un paniere bellissimi fiori. Splende l’altare di sacri oggetti della più grande magnificenza. Ancelle inginocchiate le sono accanto: un’altra indietro alla sua sinistra: nel fondo le colonne di marmo della cappella: lontano la solitaria campagna. Molta lode ebbe il Delaroche per la sua opera; ma vi fu pure chi disse il finito della pittura degenerare talvolta in secco; il carattere delle teste non esser così alto come forse immaginava l’autore; una delle figure delle ancelle ricordar troppo qualche cosa dell’Holbein; in somma non doversi porre quel quadro tra i più belli del famoso maestro [15]. Quindi maggior plauso si meritò il Mercuri che seppe a meraviglia rendere le bellezze dell’originale evitandone i difetti, e con rara pazienza e maestrìa dette segno di abilità pratica maggiore di quella che avea mostrato nei Mietitori, e superò se stesso e l’aspettazione universale. « Se v’ha qualcuno (diceva un ri­putato giornale), il quale preferisce i Mietitori, ciò si deve al maggior merito del quadro imitato anzichè al maggiore ingegno ivi mostrato dall’incisore. La Sant’Amelia era una pittura fatta con diligenza minuta: ma il colore e il tòcco di essa un po’monotono si prestava all’arte dell’incisione assai meno della ricca e calda pittura del quadro del Robert [16]». La bravura del Mercuri fu levata a cielo, e l’opera fu detta un portento di bulino, un diamante, che sarebbe invi­diato dagl’incisori passati, e che sfida sicuramente tutti gl’incisori avvenire.

Posto il Mercuri fra le glorie più grandi dell’arte (1837), il Delecluze scrivea: « Da qualche anno tutto parea far temere che in Francia s’abbandonasse l’in­cisione a taglio dolce. Ma lo zelo di alcuni amatori e l’ingegno considerevole di alcuni artisti francesi e stranieri, hanno rialzato compiutamente questa bell’arte. Le preziose opere di Forster, Henriquel Dupont, Muller, Prudhomme, Prevost, fanno fede di ciò che diciamo: ne fanno fede le belle stampe cavate dai quadri dell’Ingres, Delaroche, Robert, testè, dateci dal Mercuri e dal Calamatta. Tra gli editori, che per la loro intelligente operosità meritano più lode d’aver conservato il gusto dell’incisione a taglio dolce, debbono segnalarsi i signori Rittner e Goupil. Senza parlare di altre pubblicazioni assai bene accolte, sono essi che han fatto incidere al Calamatta l’am­mirabile quadro dell’Ingres rappresentante il Voto di Luigi XIII [17]; son essi che hanno incaricato il Prud­homme di riprodurre la pietosa composizione dei Figli d’Edoardo di Paolo Delaroche; ed ultimamente hanno messo sotto gli occhi dei conoscitori un piccolo capo d’opera d’incisione in taglio dolce di Paolo Mercuri. In questo l’abile incisore ha colto l’occasione di porre in rilievo tutto ciò che sa far di fino, di puro, di soave col suo delicato bulino...[18] E un articolo d’un altro giornale, dopo grandissime lodi, soggiunoeva:

« Citeremo in favore di questa stampa un suffragio, del quale nessuno negherà la competenza in fatto d’incisione; quello dell’illustre inglese Doo. Poco fa un dilettante gli presentò a Londra l’incisione. Dopo averla esaminata con la lente accuratamente e, lungo tempo, egli disse e ripetè con entusiasmo: È cosa stupenda! Io non credeva che la pazienza e l’ingegno potessero a tal grado esser congiunti in un’opera di bulino! Il successo di questa stampa è stato grandissimo. Essa è in tutte le cartelle [19]». Non altrimenti gridarono i più reputati strumenti della pubblica opinione a Parigi e nel resto della Francia [20]. E fu allora che il celebre Doo, sebbene non conoscea personalmente il Mercuri, si affrettò a mandargli due delle sue incisioni in attestato della sua alta stima. Credo però che al cuore del Mercuri fosse d'ogni lode straniera più grata quella che gli giunse da Roma, dal suo maestro Domenico Marchetti, che gli ripeteva gli encomî fatti dal Calamatta e vi aggiun­geva i suoi con calde e commoventi parole [21].

Ma non fu senza gravi travagli il suo felice suc­cesso. È da sapere che gli fu dato dai committenti un acciaro a metà temperato. Egli, che mai non avea inciso su quel metallo, si pensò che tutti gli acciari fossero così duri: pur messovisi sopra, tagliava con molta fatica, e sebbene vi lavorasse indefessamente, avanzava ben poco la sua opera. Finitala, ne fe’stampare dallo Chardon cento copie per avantilet­tere, le quali, essendo più fresche, oggi non han prezzo che le paghi. Dopo ciò un garzone della stamperia, che voleva vendicarsi di non so che torto fattogli dallo Chardon, fece passare il rame a rove­scio nel torchio, cosicchè tutte le teste ebbero sfregi per traverso. Grande fu l’ira e lo sbigottimento del Mercuri, che domandò come fosse avvenuta la grave sciagura. Lo Chardon volle celargli il vero rispon­dendo che ciò qualche volta avveniva, quando l’ac­ciaro non era egualmente duro in tutte le sue parti. Il Mercuri, che avea provato a sue spese la durezza di quell’acciaro, a gridargli che mentiva per la gola, e che se gli avesse detto la verità, in luogo di chiamarlo al tribunale, come si meritava, avrebbe cercato qualche rimedio al male ancorchè fosse cosa assai difficile. Lo Chardon si ostinò nella menzogna. Il Mercuri allora lo chiamò a render ragione: e i periti innanzi al tribunale dichiararono essere impossibile, quel che lo stampatore aveva asserito. Questi dovette pagare un’ammenda, e il Mercuri con molta pena e studio e tempo cercò di rimediare al danno, e in parte ottenne il suo scopo.

Frattanto non cessava dal disegnare e dal dipin­gere. Una volta disegnò una Pazza dal vero, e man­datala al Calamatta, questi la mise nell’Esposizione di Brusselles. Circa poi il dipingere, già si sa che questa era la sua, vera passione. Infatti poneva a pie’del rame della Sant’Amelia l’aggiunto di pittore quasi a protesta contro la fortuna, che lo forzava a maneggiare il bulino invece del pennello. Orgoglio ben giusto e ch’è più bello, quando si pensi ch’egli d’altra parte era sì modesto e sì poco curante delle ricchezze! Osservò intanto che l’olio adoperato in Francia facea presto ingiallire i colori: e quindi li macinó con olio di lino purgato, e usò molte velature nel dipingere, raggiungendo lo scopo di far conservare i suoi quadri, anche dopo lungo tempo, freschissimi. E le sue opere allora furon queste. Un ritratto in grandezza naturale di Margherita moglie del Michelini italiano, mercante di camei stabilito a Parigi; un ritratto intero di grandezza naturale d’una Bambina, che tra i fiori giuoca con un coniglio; della stessa grandezza il ritratto di Paolo Grand in abito di avvocato; una Santa Margherita di mezzana grandezza per la Michelini (1845); una piccola Ester per il suo amicissimo Edoardo Grasset in quel tempo console di Francia a Giannina, e per lo stesso una piccola mezza figura rappresentante la Fedeltà. Dipinse anche una Pia de’Tolomei, mezza figura grande al vero, acquistata dal conte di Espagnac per la sua galleria; e poco prima di partire da Parigi pose mano ad un ritratto di sua sorella Eurosia, il quale non fu finito. E tra le cose di minor conto i ritratti della Madre e figlia Lemeneux, d’una Signora greca, ed altro, che fu portato in Oriente. A penna poi e a matita assai disegni, che per la eleganza, la squisi­tezza e il concetto si conservavano e si conservano dai conoscitori gelosamente [22]. Nella casa del Tasso a Sorrento si ammirava un suo ritratto dipinto al vivo da Scipione Gaetano. I successori del Tasso, nella prima invasione francese, lo donarono al general Mac Donald, il quale nel sacco di Sorrento aveva fatto rispettare la casa del poeta [23]. Di esso quindi andava in cerca il Mercuri per ese­guire un’incisione ordinatagli da Francesco Salviucci di Roma nel 1841. Dovea ornare una nuova edi­zione della Gerusalemme, che poi non venne alla luce [24]. Ma per quanto facesse, non potè il nostro trovare allora quel prezioso quadro, e fu costretto a contentarsi della maschera e delle descrizioni rima­steci. Veramente nessuno vide il grande e infelice più vivo e vero in alcuna pittura e in eloquenti parole, quanto nella piccola stampa del Mercuri, ove non sai se più lodare l’esecuzione materiale o lo spirito poetico e mesto dei lineamenti e degli occhi quivi diffuso. Io stesso, ch’era in quel tempo fan­ciullo, posso attestare, che veduto quel ritratto nelle vetrine dei librai o negozianti di Roma tirare a sé gli occhi stupiti e contenti dei passeggieri, sin d’al­lora, sebbene mi suonasse novellamente agli orecchi, ebbi caro e onorato il nome di Paolo Mercuri. Il rame del Tasso donato dal Mercuri al detto Fran­cesco Salviucci, fu da questo lasciato a’suoi figli. Ma in seguito, avendone l’artista richiesto notizie al suo figlioccio Vincenzo, la ebbe assai spiacevole, cioè che s’era miseramente perduto.

Ben ora degno che al ritratto del Tasso seguisse quello di Cristoforo Colombo. Si faceano allora i di­segni e le incisioni della galleria di Versailles ordi­nati da Luigi Filippo e diretti dal Mercuri e dal Calamatta. Il Gavard, che la pubblicava, desiderò ed ottenne che il nostro la ornasse di qualche cosa di suo; e questi da un antico quadro incise in acciaro il Colombo (1843) ammirato quando fu esposto a Parigi con altri suoi disegni nel 1844. Ancora si volea mettere a capo dell’opera il ritratto del re; e il Mercuri ne delineò dal vero la testa e stava per inciderla, quando Luigi Filippo cadeva dal trono. Richiesto poi di quel disegno, lo dette a chi gliel domandava. Al Tasso e al Colombo venne appresso il Condorcet eseguito sull’acciaro da un ritratto disegnato a mezza macchia da Augusto de Saint Aubin nel 1786 e messo innanzi al Mercuri dalla stessa figlia dell’uomo illustre, (1846). Parimente in acciaro fu l’incisione del ritratto della Maintenon, tratto dal dipinto in ismalto del celebre orefice e pittore del secolo XVII Giovanni Petitot, e della stessa grandezza [25]. Gli fu ordinato dal duca di Noailles per la storia ch’egli scrivea di quella celebre semiregina (1845). Altri disegni poi da lui fatti furono eseguiti da altri; e sovra tutti è notevole il ritratto di Luigi Blanc inciso dal François (1845), e quello di se medesimo (1840) inciso poi dal Calamatta [26].

Varie erano le opere, a cui s’era accinto o stava per accingersi, dopo le accennate, il Mercuri. Stando alla direzione dei disegni e delle incisioni della gal­leria del marchese Aguado, spagnuolo, venne invitato da questo a intagliare qualche oggetto della sua collezione. V’era un piccolo quadro in legno d’una Madonna col bambino detto la Madonna d’Orleans, dipinta da Raffaele nel principio della sua seconda maniera. Ei la scelse, la lucidò dall’originale, la tra­sportò in più piccolo per mezzo del diagrafo, ne eseguì il disegno della grandezza stabilita per tutte le incisioni di quella galleria, e ne avea incominciato sin dal 1840 l’incisione in acciaro. Dalla Spagna gli era stato ordinato il ritratto della regina e del prin­cipe suo sposo; da Roma il Parnaso di Raffaele. Non venne a fine il contratto per differenze sul prezzo: in compenso però gli fu dato libertà di scegliere un soggetto (e fu da lui scelta la Madonna di Foligno), pel quale i contraenti vennero a conclusione della mercede. Dovea quindi recarsi a Roma per fare il disegno; ma, essendone a lui ignote le ragioni, non ebbe più risposta su tal proposito, e tutto andò a monte. In sì fatte trattative, non cessava di occu­parsi dell’incisione ordinatagli dai soci Goupil e Vibert della Giovanna Gray sul quadro di Paolo Delaroche. Incominciatala da qualche anno, verso la fine del 1848 ne affrettò il lavoro, perchè da Roma ebbe l’offerta del posto di Direttore nella Calcografia Camerale pro­curatogli per le speciali premure del professor Mi­nardi, ed egli, accettandolo di buon grado, avea chiesto e ottenuto uno spazio di tempo sufficiente ad asse­star le sue cose [27]. Per far dunque risparmio di tempo, gli venne in idea di valersi dell’opera d’un tale incisore d’architettura, che avea già messo le mani nel rame rappresentante Lord Strafford (pittura dello stesso Delaroche) inciso da Henriquel Dupont per esser compagno del suo. A costui dette incarico di pre­parare il fondo; il che compiutosi, bisognò cercare chi dèsse al rame l’acqua forte, perchè quell’artefice si dichiarava inabile a ciò. Capitò per isciagura in­nanzi al Mercuri un certo Jeanneret, uno di quelli, che a forza di ciarle e vanti si fan tenere per va­lenti e in ispecial modo guadagnan gli uomini di buona fede: benchè, a dire il vero, il nostro, corrivo nel resto, in fatto d’arte era molto avveduto e non credea che a’proprî occhi. Ma egli in questo caso non potè pensare che l’impostura giungesse a tal punto da mostrar saggi di buone opere, che senza dubbio eran d’altri e non dello Jeanneret, sebbene questi, con molto vampo, gliele mostrasse e le dèsse per sue. L’evento chiarì presto la nascosa ignoranza. Imperocchè, trascorsi assai giorni e non vedendo ri­tornare col lavoro quel tristo, il Mercuri, insospetitosi, corse da lui, e con grave dolore vide il suo bel rame orrendamente rovinato dall’acqua forte data senza cognizione e pratica dell’arte. Non dico le parole che ne seguirono. Il fatto è che il nostro, essendo già varie figure molto avanzate, non ebbe il coraggio di gittar via tutto e far di nuovo: ma poi se ne pentì, quando, messosi a cassare le buche cagionate al rame, ebbe mestieri d’adoperarvi più tempo di quello che vi avrebbe messo ricominciando da capo. La Gray fu poi terminata in Roma nel 1858 e messa fra i più belli lavori del Mercuri. In questo seppe far vedere, oltre la sua immensa abilità nel colorire già mostrata negli altri suoi intagli, come dopo le silvestri scene dei Mietitori e le graziose immagini della Santa Amelia, sapesse addentrarsi con la fan­tasia in un tetro carcere, nell’albergo della morte e nei sentimenti d’un’infelice augusta, che inginoc­chiata innanzi al ceppo, trema davvero, e da sotto la benda, che le cuopre gli occhi, mostra lo smar­rimento e la disperata paura. Egli però, non mai contento di sè come succede a tutti i grandi, due volte mandò il rame a Parigi per le pruove, e fece l’ultima in Roma, e avrebbe ancor voluto lavorarvi sopra, se aftettato dal negoziante, non avesse al fine dovuto farsi uscir l’opera dalle mani per l’effetto della felice pubblicazione. Ma per il ritardo di essa fu costretto a cedere all’editore Goupil anche il disegno di sua proprietà da lui stesso eseguito.

          Desideroso di riveder presto la patria, procurò di uscire da tutti gl’impegni presi in Francia. Scrisse in Ispagna, e chiese ed ottenne che, per il ritratto della regina e altre cose, a lui fosse sostituito il Calamatta. Potè annullare il contratto col Gavard editore della Madonna d’Orleans per la collezione del marchese Aguado: ma ciò non senza difficoltà e sagrifizi, e persino fu costretto a dare in compenso tutte le stampe della galleria di Versailles da lui possedute, riservandosi però la proprietà del disegno e dell’acciaro già incominciato, la cui incisione spe­rava poter continuare per conto proprio dopo aver finito la Giovanna Gray. Mandò anche a monte una società ideata col negoziante di stampe Goupil: egli doveva incidere la Madonna di Raffaele detta la Giardiniera, esser pagato dell’esecuzione, e il gua­dagno a metà. Intanto per altre cose da finire, e dalle quali non poteva uscirsene, lavorava indefessa­mente, e così terminò anche alcuni rilievi in creta, e tra gli altri una testina ideale da lui chiamata l’I­mortalità (che poi offrì alla famiglia Bocquet), della quale ebbe la forma in gesso tre anni dopo a Roma. E fu allora, che dovendo anche di notte non solamente leggere, com’era uso, ma anche disegnare e modellare per dar termine a tanti lavori incominciati, ne rice­vette sì grave offesa nell’occhio destro da far temere della perdita della vista. La quale insino allora era stata anzi prodigiosa che buona, tanto che egli vedeva acutamente e da lontano e da vicino, e per incidere non usava lente, come d’ordinario si fa.

Salutato dagli amici e dalle voci della stampa francese, era in sulle mosse, per partire. In privato e in pubblico si rammentava il suo soggiorno in Francia così glorioso per diciotto anni, la celebrità acquistata sopra tanti altri illustri francesi, la sua modestia, le sue belle doti sì dell’intelletto, sì del cuore! Si dava biasimo al Governo che non avesse con onori, con lucri, col dargli anche la cittadinanza francese [28], perpetuato ivi il soggiorno del grand’uomo, e a questo auguravano tante gioie a Roma, che, sapute, potessero scemare in qualche parte agli amici di Francia il dolore di averlo perduto [29]. Fra molte, che potrei scegliere, valgano le nobili parole che si leggono nel Costitutionnel pochi giorni dopo la partenza dell’artista da Parigi: «Paolo Mercurí, che noi avevamo conquistato da Roma e che avea fatto della Francia la sua seconda patria, ci ha lasciato otto giorni fa per ricovrarsi sotto le ali di Pio IX, che l’ha no­minato direttore della sua Calcografia. A lui, è vero, non sarebbe mancato mai lavoro: l’Europa ne lo avrebbe fornito; ma egli, come i monaci del medio evo che consacravano la vita d’annegazione e di lavoro alla pittura dei manoscritti, avea bisogno di calma e di riposo. Dio voglia che lo ritrovi nella città dei sette colli! Quanto a noi salutiamo con la mano e col cuore quell’artista sì semplice, sì modesto e in­sieme così grande. Invero egli ha onorato l’ospitalità da noi ricevuta, e ha sempre corrisposto con belle opere alla riputazione, di cui l’abbiamo coronato. A Parigi ha terminato l’incisione della bella e sapiente raccolta dei Costumi dei secoli XIV, XV, XVI, di cui ha eseguito i disegni in Italia pubblicandoli poi sotto il nome del Bonnard. Qui ha inciso il delizioso rame della Sant’Amelia di Paolo Delaroche e i Mietitori del Robert, tenute per le migliori opere che sieno uscite dal bulino. Qui ha prodotto quei capi d’opera di deli­catezza e di finito, quali sono i ritratti di Torquato Tasso e della Marchesa di Maintenon .... A Parigi infine ha ornato alcune gallerie e alcuni album pri­vilegiati di amabili composizioni disegnate o dipinte, che attestano il suo ingegno pieghevole e il suo gusto elevato. Dicemmo composizioni dipinte: in quanto che, al pari del nostro ammirabile Henriquel Dupont, egli ora pittore prima d’essere incisore, ed è uno di quelli, che han fatto andare di pari passo le due passioni, le quali si sono prestate un vicendevole soccorso .... In quale agonia quest’abile artista lascia l’incisione in Francia, l’incisione ch’è una delle nostre glorie nazionali, e ch’era una volta una delle più brillanti risorse della nostra industria [30]...»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

v.

 

Vita domestica del Mercuri a Parigi ‑ Amicizie ‑ Roma

Onorificenze ‑ Il 1849 ‑ Il Mercuri ottiene che s’incidano

le Stanze di Ralfaele ‑ Infermità mortale ‑ Salute in parte

ricuperata ‑ Antonio Schiassi ‑ La Scuola d’Alene.

 

          Era naturale che nella narrazione delle avventure artistiche del Mercuri, io lasciassi alquanto da par­te la sua vita domestica, tanto più ch’essa, fuori di alcune consolatrici consuetudini d’amicizia, non fu, lungo questo tratto di tempo, assai feconda. A quell’anima, tutta tenerezza ed affetto, più volte sor­rise alla mente il pensiero di una compagna alla sua vita laboriosa e industre, e nessuno stenterà a credere che trovasse donzelle proclivi a corrisponderlo d’amore, e che anche i soliti ansiosi di far matrimoni gliene offrissero con visto di molto vantaggio. Egli però, conoscendo quanto sia caro alle donne francesi il lieto soggiorno di Parigi, e dall’altro lato avendo in cuore di tornare nella sua sospirata patria quando gliene capitasse il destro, sfuggiva le occasioni d’ innamorarsi, e cortesemente rifiutava i partiti. Se non che, pur avendo bisogno d’aver vicino una persona affe­zionata, dopo circa dieci anni di soggiorno a Parigi, facesi venire la sorella Eurosia,  e così ricuperando quel che gli era rimasto dell’amata famiglia, e di­videndo con lei le sue pene e le sue consolazioni, piu fermo sfidò le tempeste, più soddisfatto accolse i trionfi dell’arte. Ho detto di alcune care amicizie da lui contratte in quel soggiorno. Tra queste fu una delle primarie quella dei Bocquet. Dalla famiglia Bocquet, composta di moglie, marito e una figlia, ebbe il Mercuri sempre gran conforto, e fu addolo­ratissimo di doverla lasciare, nè ora dopo tanti anni e n’è dimenticato, anzi con l’unica superstite, cioè la figlia, ora madama Collangettes, che lo chiama suo maestro, come fu veramente nel disegno, mantiene affettuosa corrispondenza.

Con la sorella dunque il 25 ottobre 1848 lasciò la cortese Parigi. Imbarcatisi a Marsiglia, ebbero cattivo mare: anzi la burrasca li costrinse a rifu­giarsi nel golfo della Spezia, dove attesero miglior tempo tre giorni. Ripostasi in cammino la nave, nel 4 di novembre, sorsero a Civitavecchia non senza pericolo di affondare alla vista del porto. E veramente quivi un altro battello naufragò, sebbene i passeggieri fossero salvi, meno un bambino rapito per le furiose onde dalle mani d’un intrepido marinaio, che a rischio della sua vita volea salvarlo. A Civitavecchia riposarono quella notte: partirono poi la sera della domenica, e il lunedì 6 novembre giunsero a Roma, e furono accolti nella casa del loro ainico Francesco Salviucci, ov’ ebbero cortese ospitalità.

          Il Mercuri nel giorno seguente si recò insieme col Minardi a visitare il pontefice, che lo nominò, subito maestro d’incisione nell’Ospizio di San Michele (7 novembre 1848), e dopo tre mesi, giunti quasi al termine alcuni rinnovamenti da lui ordinati nella Calcografia Camerale, vi prese riposata stanza[31]. In­tanto parecchie Accademie si sollecitarono di nomi­narlo lor socio, e più insigni artisti gli fecero dimo­strazioni di stima, e tra i primi il Toschi che gl’inviò due sue bellissime stampe (la Discesa della Croce di Daniele da Volterra e la Madonna della tenda del Correggio) così dette d’etichetta, con parole di altissima stima. Ma perchè un bene a lui non dovea succedere scevro di angustie e perturbazioni, così avvennero in quel tempo i gravi torbidi dell’uccisione di Pellegrino Rossi, della fuga del pontefice, dell’insediamento della repubblica nel febbraio 1849. Non riuscì al Mercuri di sfuggire il richiamo del suo nome illustre, e fu nominato a sedere nel Mu­nicipio: dove, stretto a’più onesti, ebbe campo di praticare la sua avvedutezza e carità patria per allontanare molti mali imminenti. Così occupato in faccende estranee all’arte sua, avvenne che il Mazzini chiese alla Calcografia Camerale le carte geografiche che per avventura vi fossero. Mancavanne le stampate: quindi doveva aprirsi la stanza ov’erano depositati i rami di esse. Le tre chiavi, che aprivan­o la porta, stavano in mano dei superiori, se ne poteron aver che due. D’altra parte il Mazzini imperava l’apertura, ed era forza obbedire. Fu allora chiamato un notaio, e con rogito regolare, in presenza di testimoni, fu dischiuso l’uscio e tratto dalla stanza quant’era per urgenza richiesto.

Nello scorcio del 1850 il Mercuri tornò un’altra volta a una speranza lungamente nutrita nel cuore. Egli aveva sempre pensato a una provvisione, onde rimanesse bella e perpetua memoria delle pitture di Raffaele nelle Stanze vaticane, da lui dette miracoli che Dio si degnò di operare per le mani d’un giovane eletto. Colse dunque l’occasione che gli si porse d’una dovuta visita al papa per parlargliene coli eloquenza ed affetto. Disse, delle fiacche incisioni del Volpato, delle sue proposte fatte sin dalla sua dimora a Parigi e che andarono a vuoto per le brighe del Camuccini, a cui fu più a cuore far incidere le sue opere: de­scrisse il disfarsi a mano a mano delle maravigliose pitture nel volger degli anni; il danno che ne verrebbe alle arti, a Roma, al mondo: quanta riconoscenza avrebbe il pontefice facendo rivivere quei prodigi mezzo cancellati, riparando così con mano pietosa l’osceno oltraggio degli uomini e dei secoli. Concluse, perorando caldamente la diletta causa, che il papa si degnasse dar ordine per l’incisione di tutte le prodigiose Stanze. Questi per vero, amoroso delle arti, non era ripugnante a quest’opera: ma ancora era perplesso: se non che, le opportune parole e le preghiere del Minardi lo spogliarono d’ogni incertezza, e non ispaventato dalla spesa grandissima, approvò la proposta. Il Mercuri, gioioso come doveva essere per un evento sospirato in tutta la vita, senza indugio mise mano. Determinare le grandezze, ordinare i disegni, far venire nove ec­cellenti rami da Londra, fu cosa di pochi mesi. Ap­provati in seguito i disegni dalla Commissione arti­stica sopra le opere della Calcografia, i lavori furon distribuiti in tal modo:

L’Incendio di Borgo: disegnatore PAOLO GUGLIELMI: Incisore GIUSEPPE

MARCUCCI.

Eliodoro: dis. ROCCHI: inc. PIETRO FOLO.

Parnaso: dis. SEVERA'I'I: inc. GIUSEPPE MARCUCCI.

Il carcere di s. PietrO: dis. SEVERATI: inc. MANCION.

L’Attila: dis. SEVERATI: inc. ANTONIO SCHIASSI.

Il miracolo di Bolsena: dis. SEVERATI: inc. MICHELANGELO MARTINI.

La disputa del Sagramento: dis. SEVERATI e CALAMATTA[32]: inc. CALAMATTA

La Scuola d’Atene: dis. SFVERATI: inc. MERCURI[33].

Al Folo designato per l’incisione dell’Eliodoro, essendo morto, fu sostituito il Marcucci, il quale per mezzo del Mercuri lo cedette in seguito al Raimondi di Parma: e in cambio, al Marcucci furono dati i quattro tondi dipinti nella volta (Poesia, Filosofia, Teologia, Giustizia) della Stanza ov’è la Disputa del Sagramento. In luogo del Calamatta, rapito alla nostra ammirazione mentre aveva già preparato l’intera lastra, venne scelto Luigi Ceroni.

È, chiaro che, siccome le gravi faccende non si compiono a ore, ma a mesi e ad anni, così queste determinazioni vennero prese a mano a mano e in mezzo alle solite e minute traversie che avvengono dove son più uomini ad operare. Intanto la vita do­mestica del Mercuri avea assunto nuova sembianza. Dovendosi verso il 1850 maritare la sorella Eurosia a Giovanni Orlandi, egli, che rimanea solo, pensò sul serio ad accasarsi. Quindi volse il pensiero a una giovane, che, amica di Eurosia nel Conservatorio di San Michele, non avea cessato di carteggiare con essa da Roma a Parigi così palesando in quelle intime espressioni la sua bell’anima. Come avviene, il Mercuri domandava alla sorella di quale indole fosse colei di quali costumi, e uditene quelle lodi, che si con­faceano alla sua condotta anche in difficili circostanze, preparava l’anima inconsapevole all’idee future. Ora, tornato in patria, ripensò a lei, e fattosi compagno alla sorella nelle visite al Conservatorio, si confermò nella stima di già concepita. La quale prese sembianza d’affetto, allorchè vide la giovane (che si chiamava Anna Maria Cenci) addolorata per la morte d’un suo fratello quasi da morirne. Risoluto allora di unire la stia vita a questa, si proferì a lei per isposo. La offerta fu accolta con timida riconoscenza e con la preghiera di qualche indugio per pensarvi sopra. In breve però fu celebrato il matrimonio insieme con quello di Eurosia il 18 maggio 1850, e frutto di questo furono prinia due figli morti bambini, e nel 20 settembre 1854 la Enrica, che giovane ornata d’ogni virtù e valente disegnatrice, forma l’orgoglio, la delizia, la speranza dell’illustre suo padre.

E fu dono del cielo al Mercuri una sì amorosa compagna. Appena mandato a Parigi il rame della Gray fu assalito da un colpo apopletico (4 gennaio 1859). Quali cure gli prodigasse la moglie può bene immaginarsi chi si figuri una donna, che, oltre all’amare caldamente        il marito, crede aver dal cielo il cenno di custodire e conservare al mondo un grandissimo ingegno. E questi infatti, riconoscente, nelle brevi memorie che per lo scopo del presente scritto mi ha dato, si distende più sulle affettuose cure prodigategli dalla consorte, che sulle sue stesse opere. Preferenza che fa onore al suo cuore, ma che noi non possianio perdonargli: in quanto che, alla storia della devozione d’una donna sublime potrà sempre supplire e l’immaginazione d’altre donne capaci di ogni sagrifizio e la conoscenza di quanto può nell’amore e negli affetti di famiglia cotesta bella parte del genere umano: circa la vera essenza delle opere e il processo interno, che l’ha condotto in esse a tanta altezza, nessun altro potrà mai supplire che lui. Noi però, dando tributo di riconoscenza alla valorosa donna, diremo che fu per la sua energia e operosità e svegliatezza che il Mercuri rimase in vita e ricuperò una gran parte delle sue facoltà. Privo della parte destra, nè l’aria di Fiumicino, nè altro poteano ridargli il nutrirsi e il parlare. Era a dirittura sfidato dai medici. Anna Maria, preso forza e ardire dal grave pericolo, col chinino gli unse le giunture del corpo, e fattogliene ingollare più quantità di quella che i medici ne aveano ingiunta, lo campò, con istupore di tutti, dalla morte vicina. Erano però ancora e rimasero per lungo tempo le braccia e la gamba destra assiderate. Invano si tentò la balsamica aria di Castel Gandolfo; quando non so chi suggeriva il tuffarlo nella calda arena del mare. I dottori a sconsigliare, a far tristi prognostici. Vinse però la volontà tenace e la quasi divinatrice forza di Anna Maria. Preso alloggio fra Porto d’Anzio e Nettuno in una locanda, ogni dì era scavata da un uomo a ciò adatto una fossa nell’arena, dentro la quale per otto volte discese il Mercuri cori un cappello di paglia sul capo e un lenzuolo disteso sopra per ripararsi dalla sferza del sole, sudando a goccioloni, con sempre a fianco la diletta moglie, che l’asciugava e ali dava conforto. La perigliosa pruova fu superata: e a questa e al coraggio infusogli dalla sua compagna deve il nostro se a poco a poco ha in parte ricuperato l’uso e la forza dei membri fulminati.

Nondimeno, poichè la sua destra avea perduto la elasticità e la fermezza necessaria, non potè più il Mercuri far uso del bulino resogli impossibile a maneggiare. Non può dirsi quanto fosse il suo ram­marico per dover rinunziare alle opere in parte im­maginate, in parte principiate, e specialmente all’intaglio di quella celebre Madonna d’Orleans che dovea esser la prima lastra eseguita a proprio conto, e che certo, da quanto si può arguire dallo stupendo disegno che si ammira nel suo Studio tuttora, sarebbe riuscita un’incisione degna veramente del quadro di Raffaele! Ma quello che doleva più all’artista era di non potersi occupare nell’ incisione della Scuola d’Atene. E n’era sommamente afflitto e scoraggiato, allorchè la generosità di un giovane lo soccorse. Antonio Schiassi da Medicina, già premiato nel concorso di Bologna, aveva avuto provvisione dal papa per istudiare a Parma sotto la direzione del celebre Toschi. Quivi fu adoperato dal maestro in molte opere; ma già era maturo artista senza ancora aver pubblicato nulla col proprio nome. Vedendo che il Toschi a ciò non pensava, alla fine venne a Roma, e s’allogò col Mercuri, che già bene lo conosceva. Quivi dette aiuto al nostro nel fondo della Giovanna Gray e fece di suo, oltre a varie altre cose, il ritratto del poeta polacco Mickiewicz, e due ritratti del Papa dalle fotografie, il secondo dei quali è veramente bel­lissimo e degno delle lodi che ne fece e ne fa il Mer­curi. Tòcco dalla dolorosa angustia di questo, gli si offrì spontaneo d’intraprendere l’incisione della Scuola d’Atene a metà del prezzo, rilasciando l’altra metà a favore del buon maestro. Questi, consigliato dalla gra­titudine, accettò la proposta col patto che lo Schiassi sotto la sua direzione incidesse il rame da finirsi entro dieci anni. Intanto lo Schiassi, miglioratosi dal Mercuri il disegno sia in qualche figura, sia nell’archi­tettura e specialmente nell’effetto, si accinse (1864) nello Studio stesso del Mercuri all’importante lavoro, pel quale i lontani posteri della fama dell’Urbinate non con la sola voce dei secoli, ma con la vista si renderanno compiuta ragione.

 

 

 

 

VI

 

 

Il 1870 ‑ L'Aloysio‑Juvara ‑ Il Mercuri Presidente della

Cal­cografia ‑ Abbandona il suo Studio e il rame della Scuola

d’Atene ‑ Feste e dolori di famiglia ‑ Di nuovo il Fra

Giovanni da Capistrano ‑ Altre opere ‑ Onorificenze.

 

          Non pare credibile, ma è pur vero elle la vita tranquilla menata dal Mercuri ebbe grandissimo tur­bamento e molestie poco dopo che Roma, in un abbraccio violento ma necessario, fu congiunta alle altre, provincie italiane, e, per diritto storico riconosciuto dai popoli, divenne capitale della Penisola. Di mente e di cuore italiano, il nostro si gioiva di tanto avvenimento, e attendeva ai suoi lavori, quando ebbe nuova che al Ministro della Istruzione Pubblica, Correnti, era pervenuta col nome del Mercuri, una lettera che il Mercuri non si era mai sognato di scrivere. Con questa egli domandava riposo e proponeva al suo posto l’inciso­re Giuseppe Marcucci che sin da undici anni innanzi ­gli era stato messo dal pontefice ai fianchi con l’uficio di Vicedirettore. Il Mercuri si affrettò di far nota al Ministro la falsità di quella lettera. L’autore di essa non fu poi conosciuto anche perchè non si proseguirono le ricerche iniziate. A ogni modo, per desiderio espresso del Ministro, la cosa fu messa in tacere.

Intanto l’incisore Aloysio‑Juvara fu dal Ministro chiamato da Napoli con l’incarico straordinario di esaminare l’andamento, l’ordine e l’amministrazione della Calcografia. Il che fattosi dall’Aloysio insieme col Mercuri, fu da prima posto in disponibi1itá il Marcucci e messo al suo luogo lo stesso Aloysio col titolo di Condirettore e maestro della scuola d’inci­sione da istituirsi nella Calcografia, e poi con decreto reale del 17 marzo 1872 fu dato nuovo assetto alla superiore direzione di essa. A tale scopo il Mercuri ne venne rieletto Direttore col diritto d’alloggio nello stabilimento come per lo innanzi, e l’Aloysio, col medesimo diritto d’alloggio, ne fu confermato Con­direttore e maestro d’incisione. L’Aloysio dopo ciò con notevoli e necessari cambiamenti migliorò l’an­damento economico della Calcografia, la quale ne avea veramente bisogno.

          Tutte queste cose furono fatte di pieno accordo tra l’Aloysio e il Mercuri: anzi questi, interpellato sin da principio dal Ministro, se avesse avuto piacere che l’Aloysio gli fosse compagno, avea risposto di esserne contentissimo, perchè verso di quello nutriva sincera amicizia da circa trent’anni.

Nè fece difetto per lungo tempo quest’armonia tra il Mercuri e l’Aloysio, e furono ambedue ricolmi di onorificenze. Se non che il carattere assai impres­sionabile dell’Aloysio offrì il destro ai maligni, che godono ai tormenti degli uomini d’ingegno giunti in alto, di svegliare in lui delle sospettose diffidenze. Vi fu persino chi tentò di seminar zizzania tra lui e il suo amico Mercuri: ma le reciproche leali spie­gazioni intervenute spuntarono le armi che si adope­ravano per intorbidare la scambievole fiducia, per rompere l’antica amicizia[34]. Ad onta di ciò l’Aloysio sempre più assalito dalle arti perfide, non potè do­minare sino all’ultimo se stesso e la sua indole ac­cessibile ad ogni insidiosa parola. Credè a immaginarî pericoli che gli si diceano imminenti: in tutto ed in tutti vedeva frodi e tradimenti: tanto che nel 29 maggio del 1875 si procurò, con la sua mano stessa, la miseranda fine che fece fremere d’orrore e piangere di compassione tutta Roma.

Non bastando alla famiglia Mercuri il dolore di questa catastrofe, le venne sopra, con apparenza d’onore, un’altra amarezza. Fu nominato Direttore della Cal­cografia il Marcucci (6 settembre 1875), e Presidente di essa il Mercuri. Il quale però, mentre guadagnava un titolo suonante, perdeva il godimento, che avea da ventisette anni del diritto di alloggio, non compensato da una congrua indennità che gli si promise allora e che poi nel vero fu minore di quanto sarebbe stato più giusto.

Nel 20 ottobre 1875 egli dovè abbandonare, nella sua vecchiezza, lo Studio fattosi acconciare per uso di un vero artista, insieme con la casa abitata per tanti anni, nella quale avea sperato di morire, e prese alloggio nel palazzo Massimo alle Terme Diocleziane. Quivi, poichè non avea più da occuparsi nelle faccende della Calcogratia, rivolse ogni sua cura alla direzione del rame della Scuola d’Atene e cercò di sollecitarne l’opera alquanto ritardata. Ma si opposero a’suoi desiderî la mal ferma salute dello Schiassi che per questo andò nel lavoro sempre più a rilento, e la prematura morte dello Schiassi medesimo avvenuta il 28 febraio 1872. Fu doppiamente dolorosa all’animo del Mercuri tal morte: perdeva il suo amato scuolaro ed amico, e la speranza di più vedere compito sotto i suoi occhi l’intaglio della grand’opera di Raffaele per tanti anni, con tanta ansia da lui desiderato. In con­seguenza di sì tristo caso, egli restituì spontaneamente al Ministero la lastra incominciata, onde la Giunta delle Belle arti ne affidò la continuazione al valente Ceroni. E anche per l’Attila, non potuto ultimare dallo Schiassi, fu a questo sostituito Lucio Lelli.

Una festa di famiglia venne a rallegrare alquanto la vita del Mercuri travagliata da sì fatte angustie. La sua amatissima figlia Enrichetta nel 30 maggio 1877 contrasse felice matrimonio con Teodoro Radulescu ru­mano (di Bucarest), còlto e agiato giovane, che nell’Università romana avea compiuto con grande onore i suoi studî di giurisprudenza. Ma nuovo e gran dolore raggiunse all’artista e alla sua lieta famiglia, quando atroci sofferenze cagionatele da malattia di cuore, Maria, la moglie del Mercuri, la salvatrice della preziosa esistenza del marito, venne a morte il 27 luglio ­1878, nell’anno sessantesimoterzo della sua età.

Ora il Mercuri, profondamente afflitto per la perdita ma prendendo animo dall’amore della sua figlia e del suo genero e dallo zelo che mantiene sempre vivissimo per l’arte, attende con cura all’insegnamento dell’incisione da lui dato tuttorra nell’Ospizio di San Michele, prende parte alle deliberazioni della Giunta superiore delle Belle arti per ciò che riguarda la Calcografia, e frequenta non di rado le adunanze dell’Accademia di San Luca. Nè lascia, non ostante l’im­pedimento del braccio cagionatogli dalla paralisi, di operare per quanto può. Sin dal 1873, benchè con grandissima lentezza e con molto sforzo, avea termi­nato di dipingere a olio il Ritratto di sua figlia, di grandezza naturale, e anche in quel tempo al suo venerando amico Salvatore Betti fece il ritratto in un disegnetto da lui donato all’editore Guidicini di Bologna, il quale dovrebbe farlo incidere per pubblicarlo in un Albo d’illustri contemporanei. Nel 1875 poi finì di ritoccare quella sua antica incisione del Fra Giovanni da Capistrano, le cui stampe erano diventate già da molto tempo raris­sime per il pessimo stato in cui era ridotto il rame. Questo rame fu ritrovato nel convento di San Pie­tro in Montorio e acquistato dal Vicegerente di Roma monsignore Angelini, a’cui preghi il Mercuri operò il ritocco. E fu bene: chè non so a quali altri mi­gliori mani si sarebbe potuto affidare quella lastrina, che, resa quasi inservibile, ebbe dal suo autore per le esperte e pazienti cure adoperatevi una nuova vita[35]. E adesso il Mercuri sta dipingendo a olio, sopra rame dorato, una piccola Santa Cecilia in mezza figura già da lui ideata è gran tempo, allo scopo di offrirla ai suoi cari amici Bocquet.

Così il Mercuri, onorato[36], amato, vive una vita, per quanto è dato in questa terra, tranquilla e serena. Ebbe ed ha coi grandi artisti, anzi con i più insigni uomini del tempo tenera amicizia e debito culto. Basti nominare Bartolini, Pistrucci, Cornelius, Overbeck, Tenerani, Finelli, Wolff, Gérard, Ingres, Schnetz, Delaroche, Orazio Vernet, Calamatta, Toschi, Salvatore Betti, Lehmann, Minardi, Mai, Pietro Giannone, Hen­riquel Dupont, Feuillet de Conches, Raoul Rochette, Rossini, Duprè, Aleardi ecc.

Possa la ricuperata salute non venirgli meno nella sua avanzata età e serbarlo all’arte, alla patria, per quanto è dato ai mortali, assai lungamente!

 

 

 

 

 

 

 



[3] Il signor Raffaello Ojetti nel suo libro: Luigi Calamalla incisore: Roma (Tipografia romana) 1874 a pag. 28 nota 3, mi rimprovera, con molta gentilezza però, che in questo passo io abbia parlato poco bene dell’Ospizio circa alla gran moltitudine degli artisti ch’esso creava. Ma rinvengo le opinioni del Calamatta simili alle mie, quando nel 1o aprile 1826 scriveva al Mercuri (v. Documenti, n. V) <<…Tutte le osservazioni, che fai sopra l’Ospizio, mi pajono giustissime. E poi, se anche riuscissero bravi, quando escono di là come vivono in un paese ove il Governo non dà due soldi di lavoro? Non si avrebbero da mettere alle belle arti che quelli che hanno da poter vivere. Se tu che sei uscito di là solo e con tanto talento, sei obbligato di fare di tutto per vivere, che cosa faranno quei poveri disgraziati, che usciranno di là a truppe?

È vero che quasi tutti quelli, che escono di là, fanno il soldato o il servitore.  Allora è  lo stesso uscire dal Lanificio o dallo Studio…...>>

[4] V. Documenti n. I.

[5] L’iscrizione sotto la stampa è Ite ad Joseph e Paolo Mercuri incise nell’O.A.

[6] Questi due quadretti, posseduti in seguito dal cardinal Tosti, oggi trovansi nelle mani del suo erede Alessandro Ceccarini. – In una lettera del cardinal Tosti scritta al Mercuri nel tempo che la Sant’ Amelia avea sparso tanto grido, si legge: «... La Sant’ Amelia ha fatto qui quel colpo che dovea fare. Ho l’amarezza di doverle dire che il buon curato azzini è passato in cielo. Lascia di sè la dolcissima memoria e l’esempio. Ho ottenuto dalla sua eredità i due quadri del giovane Mercuri S. Luigi e S. Filippo…La ringrazio senza fine delle copie inviatemi. Pagherei qualunque somma il suo ramino precedente (I Mielitori). Mi rimane però la obbligazione del primo, che resterà sempre per memoria di Lei all’Ospizio».

[7] Questo disegno donato ai Salviucci, fu più tardi (1838) inciso da Pietro Mancion, grande amico del Mercuri. Il Mancion in una lettera del 18 Iuglio 1838 narra al Mercuri che, avuto in pensiero d’incider quel disegnio, se lo fece imprestare dai Salviucci, e che ne parlò al Tosti, allora Tesoriere, il quale assentì. Trovato però il detto disegno alquanto guasto, rimandandolo al mercuri, lo pregò di ritoccarlo : il che fu dal Mercuri eseguito. Prima del mancion, il Banzo lo avea già inciso per commissione del Salviucci.

[8] Emilio Perrin nella Paix, 30 août 1837.

[9]La leggenda al di sotto della stampa è questa : P. Joannes a Capistrano romanx reformalx provincix a Leone PP. XII anno 1824  sacro Pentecostes die minister generatis reunciatus. E in piccole lettere : P. Mercuri dal viro, 1824

[10] 1825 . Avrebbero dato scudi settanta mensili, vitto e allogio. Si dovsssea litografare tutta la galleria.

[11]Del 14 decembre 1825 è l’attestato di lode fatto da Teodoro Morini rettore dell’Ospizio.

[12] In via di sant’Isidoro, n. 12, di faccia all’orto dei Cappuccini.

[13] V. documenti n. X.

[14] Sono notevoli alcuni passi d’una lettera di Paolo scitta il 16 marzo 1830 al Minardi. «… Rocco De Santis è l’uccisore del suo patrigno Vincenzo Mercuri… La ferita nessuno, per quanto sia credulo e insensato, la può credere naturale, mentre colla sola caduta è impossibile di stritolarsi l’osso della fronte, dell’occipite, come risulta dalla sezione e dal teschio, che sfortunatamente conservo presso di me, fatto preparare dal sig. Vincenzo Sartori, chirurgo sostituto della Consolazione… Ah povero padre mio! Se fosse stato ucciso qualunque più infimo animale ne avrebbero fatto più caso! Ch’io faccia l’elogio di mio padre forse non sarei creduto; ma tutti quelli che l’hanno conosciuto, possono farlo per me… Non troverò più quiete, giacchè il mio spirito è oppresso in modo, che solo da morte attendo riposo». – Nella prima edizione della presente Vita era scritto che il padre del Mercuri fu ferito nell’l 1 novembre. S’è mutata questa data nel 4 novembre e s’è accertata la morte di lui avvenuta il 16 novembre per via delle Fede di morte che trovasi nel libro mortuario dell’Arcispedale di Santa Maria della Consolazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III.

 

Il Mercuri a Parigi – I Costumi dei bassi tempi – I Mielitori-

Causa intentatagli dal Robert - Vittoria – Transazione.

 

Fu ventura che intorno a quel tempo (20 marzo 1830) il Mercuri

dovesse prender la via di Parigi a continuare l’opera dei Costumi e a sorvegliarne la stampa. Della quale opera sarà bene ch’io dica subito le vicende per non tornarvi, nel corso della narrazione, più sopra. Il Bonnard dunque l’aveva intrapresa a imitazione di quella pubblicata da Ricardo Gough sui monumenti sepolcrali della Gran Brettagna1. Una edizione italiana se ne faceva a Roma col testo del Bonnard: ma non comparve quivi che il solo primo volume con cento tavole. L’altra, in francese, usciva in luce  a Parigi, ed anche questa fu soggetta a varie vicende. Imperocchè, scoppiato il rivolgimento di luglio e gli associati dispersi, il Bonnard vendesse l’opera a Paolo Grand avvocato, e questi a sua volta la rivendesse all’editore di stampe Goupil, il quale finalmente la pubblicò tutta quanta nel 18452.

Questi costumi sono incisi all’acqua forte con poca macchia. Alcune vedute qua e là son di mano del Bonnard. È in essi sottilmente intesa la maniera dei trecentisti e quattrocentisti, da cui son tratti. Qualche volta, l’artista ha voluto animare le figure dell’istorie e delle tombe: nè per certo a mo’d’esempio, nel musaico di santa Sabina il domenicano con la croce alzata in atto di parlare, mostra tanto fuoco e tanta vivacità3. Fra i molti bellissimi, a me sembrano toccar l’apice l’arciere del milletrecento, il doge Michele Steno, il giovane veneziano, i giudici del torneo4 e quasi tutti i ritratti degli illustri o famosi come Federico III, Can della Scala, Vittor Pisani, Gastone di Foix, Giordano Orsini e Massimiliano imperatore ambedue a cavallo, Federico II, il Petrarca, Sisto IV ed altri5. Insomma, lasciando l’esecuzione, che non poteva esser migliore considerato lo scopo a cui tendeva l’opera; tu vedi in codesti due belli volumi risuscitato e riprodotto il medio evo, di cui invano cercheresti traccia fuori d’Italia, sola còlta e civile in quei secoli, nel resto d’Europa sì oscuri. Nelle storie dei santi e dei martiri rappresentate dai nostri primi scultori e pittori, qua e là improvvisamente lampeggiano e vivono le immagini della vita civile: dappoichè, non ricercando gli artefici i costumi delle diverse epoche e delle varie genti, ricopiavano quel che vedevano intorno, salvo che lasciavano ai sacri personaggi il tipo ieratico, venerato e consacrato dalla tradizione. Al volto imberbe e virile del giovane fiorentino, all’atto energico e alla man destra bassa coll’indice teso, te lo rappresenti in quel punto che lasciava un focoso discorso, e ben lo riconosci per un di coloro, che indomiti nell’amore o nell’odio, o volean distruggere ilnido natìo,o, come Farinata, lo difendeano a viso aperto6. Tu scorgi lo spirito del fantaccino italiano in quel giovane svelto, con la lancia, i capelli investiti dal vento. Ben furono di tal tempra gagliarda e valorosa coloro, che fecer liberi i Comuni e che furon per certo con amarezza desiderati, quando, poste alla difesa della patria le milizie di ventura, i tiranni nell’ozio e nell’infingardaggine dei cittadini tramarono e conseguirono la rovina della libertà7. Vedi tornei, tribunali, guerrieri, commercianti, ebrei, imperatori, armature, toghe, eleganti vesti di gentildonne, austeri manti di cenobiti, soldati devoti, frati battaglieri, quel misto di religione, di valore, di fasto quasi asiatico tra fazione acerbe e incremento civile, di cui l’Italia die’sola esempio in quell’età, scontandone adesso ancora e le glorie ei delitti.

Il Mercuri intanto, adoperato dal Bonnard e poi dal Grand in sì vasta opera, eccetto pochi denari, che gli bastarono appena per campare, non ne trasse che vane promesse ed esigue speranze di quadri da fare e neppure ordinatigli. Quindi vivea povera vita, confortata in parte dalla calda amicizia del Calamatta, dal quale non si divise se non quando questi pensò di trovarsi felice (e nol fu) sposandosi alla figlia dell’illustre francese Raoul Rochette. Nè per quanto il nostro cercasse di procacciarsi lavori, sia in pittura sia in disegno, ciò gli veniva fatto. Avea continuo ostacolo all’altrui fiducia dal non poter mostrare altro bel frutto delle sue fatiche che Costumi a mezza macchia, alcuni disegni e certe incisioni a punta secca, ossia tre tavole di Antiche terrecotte figurate per un’opera del conte Pourtales (1831). E lunga pezza avrebbe continuato in tale oscurità, ove non gli si fosse pòrta un’occasione, che ad altri forse, ma non a lui, sarebbe sembrata di poco momento. In questo appunto differisce il grande dal mediocre ingegno. Date a un uomo di poco levatura una bellissima occasione da segnalarsi: egli non ne trarrà che poco o niun frutto. A una testa capace, a una mano esperta concedete un nonnulla quasi a scherno, a ludibrio: saprà egli di ciò, ch’era al di sotto del suo potere, anche di quello, che non poteva recargli alcuna nominanza, far lo strumento, che provi il suo alto sapere e gitti salde fondamenta alla sua fama perene. Il Mercuri ebbe invito dal Ricourt di eseguire un contorno in litografia per esser pubblicato nel Giornale L’Artista. L’originale era un quadro già messo nell’Esposizione, il quale rappresentava i Mietitori nelle maremme romane, dipinto da Leopoldo Robert. L’opera era molto encomiata allora e anche adesso non poco: ma per certo il bulino del Mercuri la reste sì celebre, che il descriverla ora parrebbe pedanteria non altrimenti che narrare a parte a parte la disposizione e gli atteggiamenti delle figure nell’immortale Scuola di Atene. Basti dire che nella curiosità, incui erano allora i viaggiatori e gli artisti stranieri dei costumi della campagna romana e dei paesi al mezzogiorno di Roma, eccitata specialmente dai popolari disegni di Bartolomeo Pinelli, lo svizzero Robert seppe più d’ogni altro cogliere il vero e l’eletto dipingendo la scena dei Mietitori con grazia greca. Fu egli, che dando riputazione a sì fatta specie di argomenti, generò imitatori, che non l’han mai neppure eguagliato, massime perchè i prisenti, anzichè ricorrere al vero, si appagano di quel corrotto e mascherato stuolo, che sulle scale della Trinità de Monti simula teatralmente l’innocenza o la fierezza de’luoghi nativi8.

Paolo  disegnò dunque da prima codesto quadro a mezza macchia: ma quando fu per inciderlo, domandò all’editore licenza di far ciò sul rame piuttosto che sulla pietra litografica: in tal guisa le finezze dell’opera avrebbero avuto miglior modo di esser rilevate. Il Ricourt acconsentì molto volentieri. Cominciata l’incisione, l’artista per sollevarsi dalla noia di eseguir sempre contorni, pensò di finirla a tutto effeto, e fatto anche di ciò parola al Ricourt, alacremente avanzò nella detta maniera il suo lavoro. Visto però di aver mestieri un’altra volta dell’originale appunto per non falsarlo, pensava di finire il disegno col quadro dinnanzi agli occhi. Questo per avventura era fuor di Parigi; tanto che egli si sforzò di richiamarselo a mente ne’suoi particolari, e cercò, meglio che potea, nella copia ravvicinarsegli. In quella tornò a Parigi il Robert già dal Mercuri conosciuto a Roma, e gli fece visita allo Studio anche per vedere l’incisione incominciata. Il nostro colse questa occazione  per chiedere al Robert se non il quadro, che non era più in suo potere, al meno qualche bozzetto o ricordo di esso. Il Robert gliene offerse una copia in disegno, a suo dire, molto esatta e già compiuta dal suo stesso fratello. Perchò il Mercuri fu presto a recarsi nello Studio dell’Ulrich, ove il Robert aveva agio a’suoi lavori nel poco tempo che dovea trattenersi a Parigi, e quivi, in vece di finire il suo disegno come s’avea prefisso, ritoccò una pruova già stampata del rame per meglio rappresentare il vigore e il carattere dell’opera, e così più sollecitamente compì la bizogna. Quindi ebbe termine quell’ incisione, che dissimulando il colore poco commendevole del quadro, lo fece apparire più bello. Originale, puro, grazioso e robusto nello stesso tempo quivi apparve il Mercuri; e adoperando l’immaginazione (la quale non è inutile come si crede, a quelli specialmente, che di tal professione fanno un’arte vera), e conciliando con immenso  ingegno la regolarità materiale con la scioltezza e l’inatteso tòcco artistico, egli impresse nel suo lavoro una vivacità i una naturalezza ammirabili. Poichè dal Roberto fu veduto i approvato, il Mercuri lo consegnò subito all’editore Ricourt e n’ebbe lo stesso misero prezzo, che già s’era statuito per il solo contorno, ossia (fa pena il dirlo!) trecento franchi. Undici mesi di fatiche in un’opera di tanto grido, per sì vile mercede!

          Parea che l’artista avesse il diritto di godersi in pace una gloria acquistata con tanto sagrifizio. Ma non fu così. Qualche giorno dopo la consegna egli fu citato in giudizio, insieme col Ricourt, innanzi al tribunale del dipartimento della Senna, come contraf­fattore dell’opera, eseguita cioè senza il consenso del­l’autore. Chi l’accusava era, lo stesso Robert. Se rimanesse il Mercuri come sfolgorato da tanta nequizia, chiunque ha cuore sel pensi. Scrisse subito al Robert scongiurandolo a non portargli sì grave danno: gli richiamava alla niente cìò ch’era poco prima interve­nuto fra loro e non avrebbe dovuto dimenticarsi da una retta coscienza: da ultimo, mostrando il suo animo troppo mite, si proferiva di rifare pel Ricourt il sem­plice contorno in litografia, purchè gli si desse facoltà di pubblicare il rame fuori di Francìa. Il Robert non sì degnò rispondergli. Era chiaro che colui voleva in stia balìa il rame senza sborsar moneta. Assalito sì ingiustamente, fuori d’ogni umana credenza, da un artista di quella riputazione, non potè resistere alla forza del dolore l’animo delicato e sensibile del no­stro. Il pensiero di dover perdere il frutto de’suoi sudori e per soprammercato con nota d’infamia in terra straniera, gli alterò la salute, in pochi giorni gli nudò dei capelli la fronte!

          Alla sozza calunnia il solito codazzo d’ingiurie. La plebe degli oziosi e dei giornalisti a vibrare scède (3 frizzanti motti contro lo sconosciuto oltramontano che osava vestirsi, con furto disonesto, delle penne altrui. E vi furono ingiurie sanguinose all’Italia: ma dov'è il popolo che nelle sue ire anche giuste contro un uomo qualunque, non confonda con esso anche la sua patria? Ancora il mondo non è giunto, nemmeno in Europa, a venerare la virtù o a maledire il vizio per se stessi e non come bello o tristo privilegio d'una sola nazione. L’Italia intanto non patìa pena per sì fatte ingiurie; bensì se ne crucciava Paolo, tormentato per un anno intero innanzi ai tribunali e all’opinione pubblica tutta vòlta a favore del Robert. Non così però la pensavano gli uomini di gran senno e gli amici intimi del Mercuri. Questi, ben conoscendo pari al suo valore la rettitudine e l’onestà, con la loro voce, sebbene poco udita in mezzo all’indecente schiamazzo, redimevano in qualche parte l’onta recata al nome francese dagli avari, dai maligni, dagl’invi­diosi. Tra i benevoli era il Bonnard: una lettera del quale io voglio tradurre e riportare qui intiera, come quella che onora lui, il Mercurì, e rappresenta l’opi­nione del pubblico dabbene: « Ho letto testè in mio dei fogli della Gazzetta dei tribunali un articolo, che m’ha dato vivo dolore. È mai possibile che a premio di tanti sagrifizî, di pene, di fatiche, voi siate fatto segno a ingiustissime persecuzioni? Non conosce dun­que nessun limite la cupidigia di coloro, che han cercato abusare del vostro stato per arricchirsi col frutto delle vostre fatiche? Perchè io non ho tanta potenza da far udire la mia voce gridando il nobile disinteresse, di cui m’avete già dato costanti prove? Perchè io non posso con una sola parola far conoscere a quelli che non hanno nè il tempo, nè le occasioni da potervi stimare, tutte le privazioni, a cui vi siete assoggettato, per porgermi aiuto nella produzione d’un’opera, la cui miglior parte è tutto merito vostro? Allora sì che sarebbe noto agli altri come a me, di che nobili qualità, di quanta lealtà e onoratezza sia ricca la vostra bell’anima! Gli svergognati arrossi­rebbero della vile persecuzione mossa contro di voi, e il vostro amico non avrebbe da gemere con voi di questo nuovo esempio di ostacoli e di vili maneggi, onde si vuole arrestare il volo d’un ingegno, che ci apporterebbe gloria quando acquistasse la cittadinanza francese. Io sono troppo sicuro della severa impar­zialità, dei magistrati: perciò non dubito punto che voi non siate per vincer la lite: intanto non ho potuto resistere al bisogno di manifestarvi il dolore del mio animo per l’abominevole ingiuria a voi fatta. Attendo dunque con grande impazienza la novella del vostro trionfo, e vi ripeto l’espressione della inviolabile ami­cizia che ci lega e legherà per sempre »[14].

Il Bonnard noti s’ingannò, ma il trionfo venne preceduto da lunghi e dolorosi fastidî. Il Mercuri, povero com’era, penò molto a rinvenire un avvocato per la sua difesa, e finalmente s’abbattè nel Boin­villiers, il quale s’appagò di soli trecento franchi a premio del suo patrocinio. E forse non sapea che quei trecento franchi eran quanto avea potuto racco­gliere da un’opera immortale il suo bersagliato cliente! In breve, dopo che fu provato al tribunale il con­senso del Robert suggellato dalla visita del Mercuri allo Studio dell’ Ulrich, il quale facea del tutto chiara testimonianza; la difesa sconfisse ogni contrario sermo­ne ed ebbe sentenza in favore del nostro[14]. Come atroce era stato da prima il dolore del biasimo, così fu re­frigerante e balsamica al cuore del grande artista la lode e, direi, l’ovazione avuta in appresso. Il The­venin, già due volte direttore dell’Accademia di Fran­cia in Roma e, allora custode delle stampe nella biblioteca Reale, fece del Mercuri larghissime lodi innanzi allo stesso tribunale, e similmente il Cala­matta, le cui parole suonarono robuste e calde, quali in somma poteano proferirsi da un uomo, che ben sapeva non esser superiore al suo amico che nella profonda convinzione di meritar la fama e anche la ricchezza, e di volerle risolutamente con le sue opere conseguire. Seguirono i giornali, le voci degli onesti e dei buoni, e in fine l’immensa turba degl’indiffe­renti, pronti a gittarsi là dove si mostri favorevole la Fortuna, e se vi è anche il merito, tanto meglio. Ma più d’ogni altra cosa vinse i Francesi la stampa pubblicata, onde fu detto il Mercuri una delle glorie vere dell’incisione moderna. E così un’altra volta fu dimostrato che il miglior mezzo di vincere gli avversa­rî, è quello di opporre alle vane ciarle l’opera indefessa.

Qualcuno domanderà come sorgesse il Thevenin a lodare il Mercuri nel fervore della lite. Egli è che il giudizio fu reso in prima istanza, e che il tribu­nale, assolvendo i rei convenuti perchè di buona fede, accolse l’offerta del Ricourt di depositare il rame presso una terza persona. Questa fu eletta nella per­sona del Thevenin, il quale avrà còlto allora il destro di parlare del Mercuri. Certamente poi la sentenza sarebbe stata confermata in appello con doppio onore dei perseguitati. Se non che nel 26 marzo 1833 intervenne una transazione tra il Ricourt, il Mercuri e Antonio Desplan procuratore del Robert dimorante in Isvizzera, con la quale il Robert cedeva la pro­prietà del rame al Ricourt in cambio di mille fran­chi e cinquanta esemplari delle pruove tirate, e il Mercuri faceva la stessa cessione togliendo in pa gamento milleduecento franchi e dieci dei detti esem­plari[14]. E così aveva termine il vergognoso litigio[14]

Quantunque di questa incisione fosse tirato un gran numero di copie, essa è divenuta una rarità, che manca sovente nei più ricchi gabinetti. Il peggio si è, ch’essendosi logorato il rame, esso fu ritoccato da chi non si vergognò, dopo la brutta opera, di lasciarvi a basso la sottoscrizione del Mercuri: e queste pruove, in luogo delle prime, si trovano nelle botteghe dei mercanti più spesso[14]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[15] Emilio Perrin, nel giornale La Paix, Paris, 30 août.

[16] Le National, Paris, 22 septembre 1838.

[17] Il Mercuri in alcune note fatte alla prima edizione di questo libro ha detto questa notizia non esser forse esatta. Egli crede che l’Ingres stesso facesse disegnare ed incidere al Cala­matta il Voto di Luigi XIII sebbene venisse pubblicata la stampa per cura del Rittner e Goupil.

[18] Débats, 27 février 1838.

[19] Le Temps, Paris, 29 mai 1838.

[20] La Paix, Paris, 30 août 1837. ‑ Le National, 22 septem­bre 1838. ‑ Le Bon sens, 29 decembre 1837, ecc. ecc.

[21] «L'espressione usata dall’amico Calamatta riguardo alla vostra bella incisione non può essere nè più giusta, nè più vera, poichè dandomi un cenno della vostra opera, mi scrisse che il vostro lavoro era un prodigio. In conseguenza non so che aggiungere, perchè quando si dice un prodigio, non si può dir di più. Onde in compenso tanto della stampa, che m’avete favorito, come del dolce nome, che mi date di maestro, vi do mille baci, non sapendo come compensare il piacere di sentire le vostre lodi.... » ‑ E l’incisore Giuseppe Marcucci gli scriveva (29 nov. 1837) «Jeri mattina dal Tesoriere vidi la tua stampa di Sant’Amelia. Io non ti so dire l’effetto che mi fece, giacchè m’intontì affatto, benchè Calamatta l’avesse costì prevenuto con la giusta espressione di superiore ad ogni aspettazione: pure non era possibile figurarsi una cosa divina e ti parlo senza esagerazione, giacchè chi la vede, resta sbalordito.... Sentirai lo sbalordimento di Tordwalsen quando ricevette la tua stampa...» In un’altra lettera (Roma, 11 febbraro 1834) il Marchetti esprimeva la gioia delle glorie conseguite dai due suoi scolari. « ... In somma sono fanatico nel sentire e vedere che due Romani, figli dell’Ospizio e miei scolari, giacchè così vi volete chiamare, si facciano tanto onore in una Parigi, poichè l’amore della patria è innato a noi tutti ».

Lettera da Roma, 2 dicembre 1837.

 

 

[22] «La Pia, che fa parte della preziosa collezione dei quadri del conte d’Espagnac e alcuni ritratti sono le pitture, che si conoscono del Mercuri a Parigi. Per esse ci dogliamo che l’artista non abbia diviso il tempo fra le due arti, in cui si è distinto egualmente. Alcuni amatori possiedono certe sue composizioni a penna e a matita, le quali si ammirano specialmente per l’altezza dei pensiero ». (Débats, 6 novem­bre 1848).

[23] Una nota segnata dal Mercuri dice che il ritratto del Tasso di Scipione Gaetano è posseduto dal principe Poniatowski.

[24] Per la storia della censura pontificia sarà buono sapere che a Roma, negli Stati romani, non si poteano più ristampare i classici, specialmente sotto il pontificato di Gregorio XVI. Il Salviucci, se volea ristampare la Gerusalemme, avrebbe dovuto darla rnozza dalle forbici d’un frate ignorante.

[25] Nel 1862 furono tutti pubblicati: Les émaux de Petitot du Musée impérial du Louvre; portraits de personnages historiques et de femmes célébres du siècle de Louis XV, gravés au burin par M. Louis Ceroni. Paris, B. Blaisot, libraire éditeur, m. d’estampes. Vedi di Luigi Ceroni una accurata notizia, scritta da Francesco Cerroti sul Buonarroti di B. Gasparoni, continuato per cura di E. Narducci. Roma, 1870. (Serie II, vol. V, febbraro).

[26] Il Calamatta ne donò il rame alla moglie del Mercuri quando questi era gravemente infermo (1860).

[27] L’invito di Roma con la nomina porta la data del 5 ot­tobre 1847. ‑ Il permesso di restare a Parigi per dar ordine alle sue faccende è del 28 marzo 1848. Si veggano nei Docu­menti ni  XXXI, LI, LIX, LXIII, LXIV, LXVI, LXIX le inte­ressanti lettere del Minardi a questo proposito.

[28] Così fa scritto allorchè egli ebbe l’Ordine di San Gre­gorio: «C’è giunta notizia che il Papa abbia mandato al signor Mercuri il diploma e le insegne dell’Ordine pontificio di San Gregorio. Noi riceviamo questa nuova con vivo piacere: tanto più che sì fatta decorazione è di quelle che non si fanno scadere di pregio col prodigarle, e non è accordata dalla Santa sede che al merito incontrastato. Gli artisti fran­cesi, che onorano nel Mercuri la doppia qualifica di pittore e d’incisore, lo vedranno con piacere così distintamente ono­rato.  Dal tempo, in cui s’ammirano in Francia le incisioni dei Mietitori e della Santa Amelia, il Governo francese, che si dice incoraggiatore delle belle arti, non avrebbe dovuto aspettare che una sì giusta ricompensa fosse data al Mercuri da’suoi compatriotti. Avrebbe dovuto pensare che se quei due piccoli capi d’opera hanno dato al grande artista il diritto di cittadinanza, v’era anche un altro mezzo per farlo a dirittura francese (naturaliser) ». (Le Bon sens, Paris, 28 juillet 1838).

[29] Débats, 6 novembre 1848.

[30] Le Constitutionnel, 8 novembre 1848.

 

 

 

[31] 1 Si vegga della Calcografia Camerale ora Regia Calcografia riassunta la storia nello scritto intitolato Cenno storico premesso da Tommaso Aloysio‑Juvara al Catalogo generale dei rami incisi al bulino e all’acquaforte posseduti dalla Regia Calcografia di Roma ecc. Roma, Regia Tipografia, 1874.

 

[32] Fu incominciata dal Severati, e finita dal Calamatta. A tal proposito non è da tacere quello che disse Raffaello Ojetti nel suo libro: Luigi Calamatta incisore cit. a pag. 29. «... La Commissione artistica, a cui era dato incarico allogare i lavori, fatta osservazione alla sua già avanzata età, in sulle prinie si mostrò incerta e irresoluta nel comettergli l’incisione della Disputa del Sagramento: solo dietro pressanti premure del Mercuri e di altro suo amico ed ammiratore si accordò che ne ultimasse il disegno già per metà eseguito dal Severati. Accettò questo il Calamatta, e in breve tempo compitolo, fece meravigliati e stupiti i Commissari per la perfezione e bel­lezza del lavoro della sua matita, e persuasili che se era tarda la sua età, però giovane e forte ancora mantenevasi al suo sapere la mano obbediente. Concordi tutti ebbeli, e non tar­darono ad affidargli l’incisione. Recatosi in Napoli pochi anni prima della sua morte, il Calamatta stesso, discorrendo di questo lavoro ottenuto col suo affezionato allievo Lucio Lelli a cui fece visita, si mostrò persuaso della perplessità in cui eransi mostrati in sul bel primo i membri della Commissione artistica della Calcografia romana nel commettergli il detto rame, esprimendosi: essergli stato dato dieci anni piu tardi. Alludeva all’imponente e lungo lavoro intrapreso, nel quale prima sarebbegli mancata la vita, che portarlo a felice compimentoDa principio il Mercuri s’era proposto di eseguire egli stesso il disegno della Scuola d’Atene e anche quello della Disputa del Sagramento».

 

[33] Da principio il Mercuri s’era proposto di eseguire egli stesso il disegno della Scuola d’Atene e anche quello della Disputa del Sagramento.

[34] L’Aloysio così scriveva al Mercuri, il 3 febbraro 1875, poco prima della sua morte: «.......   Mi sono convinto

maggiormente da questi due gran fatti, come per tanti altri schifo­sissimi, che urtano la molla più delicata del cuore degli uomini dabbene, che il movente di questi mezzi impuri, mira (come voi medesimo diceste), mira ad alterare la fondata nostra re­ciproca stima ed accordo, mercè il quale progredisce sempre più questa Ra Calcografla ».

 

[35] La leggenda che fu aggiunta in calce del rame è: Questo ritrato, essendo divenuto molto logoro, fu ritoccato con moltissima difficoltà dallo stesso Paolo Mercuri, dopo 50 anni che lo avea eseguito, e dopo 15 ch’ egli era colpito da paralisi nella parte destra.

[36] Ecco, le onorificenze da lui avute:

Ordini Cavallereschi

1838. Cav. dell’ordine di S. Gregorio Magno.

1851. Cav. dell’ordine Piano.

1860. Cav. della Legion d’onore.

1870. Commend. Dell’ordine di S. Gregorio Magno.

1873. Uffiz. Dell’ord. Corona d’Italia.

1873. Commend. Dell’ord. SS. Maurizio e Lazzaro.

1873. Cav. dell’ord. del Merito Civile di Savoia.

Accademie.

1849. Artistica congregazione pontificia de’ Virtuosi al Pantheon.

1849. Accademia di Belle arti di S. Luca.

1850. Academia Arcadica.

1850. Accademia Ligustica di Belle arti.

1851. Accademia di Belle arti di Bologna.

1851. Accademia Fiorentina di Belle arti.

1857. Accademia reale delle Scienze, Lettere e Belle arti del Belgio.

1858. Accademia dei Quiriti.

1859. Accademia imperiale di Belle arti di Pietroburgo.

1861. Accademia di Belle arti di Milano.

1864. Istituto di Belle arti delle Marche in Urbino.

1869. Istituto di Francia.

1873. Accademia reale di Belle arti di Carrara.

1876. Accademia imperiale di Belle arti di Rio Janeiro.

Medag1ie.

1834. Medaglia d’oro di seconda classe nell’Esposizione di Parigi.

1838. Medaglia d’oro di prima classe nell’Esposizione di Parigi.

1839. Medaglia d’oro di prima classe nell’Esposizione di Bruselles.